Il Counseling, un presidio del cuore.

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IL COUNSELING, UN PRESIDIO DEL CUORE.

Il presente articolo è parte di un più articolato progetto editoriale, di scrittura di un “Manuale per la formazione in counseling”, cui puoi accedere cliccando qui.

 Ci sono aspetti importanti della “natura” del Counseling (alias di ciò che più indiscutibilmente lo caratterizza) che a me sembra facciano a pugni con due idee:

  1. quella di imporre una laurea (seppur breve) come titolo indispensabile per iscriversi ad una scuola di counseling,
  2. quella di far diventare la formazione in counseling un presidio di saperi di carattere teorico-teoretico-epistemologico.

Voglio aiutare la riflessione sulla portata di tali idee, ponendo le seguenti domande:

  1. si può negare che il Counseling sia una relazione d’aiuto professionale la cui qualità dipende, innanzitutto, dalla qualità del contatto che il Counselor gestisce con i propri clienti?
  2. Si può negare che la qualità del contatto counselor-cliente, nella relazione di counseling, sia una funzione degli stati di consapevolezza personali del Counselor e di come questi vengano gestiti, dal Counselor stesso, nella relazione di counseling?
  3. Richiedendo noi counselor il riconoscimento del Counseling come nostra specifica attività professionale, ci rendiamo conto di quanto giocherebbe a nostro favore far risaltare il fatto che gli stati di consapevolezza che raggiungiamo e gestiamo, nelle nostre relazioni di counseling, sono una possibilità esistenziale che noi counselor impariamo ad esercitare in virtù della nostra particolare, ed unica nel genere, formazione in counseling?
  4. In cosa consiste la particolarità, unica nel genere, della formazione in counseling? Piuttosto che sull’apprendimento di particolari teorie e/o aspetti teoretici ed epistemologici, non consiste nel suo svilupparsi lungo un filo di continue pratiche di ascolto propriocettivo e di conoscenza di sé? non consiste nel suo svilupparsi seguendo un filo di continue esercitazioni di ascolto attivo e di continue applicazioni di forme di comunicazione empatica, compassionevole e di confronto critico? non consiste, infine, nel suo essere continua esperienza del valore della “presenza” di chi fa Counseling e di come attivarla efficacemente in chiave relazionale? (A chi può sembrare poco?!)
  5. Perché non insistere sul fatto che, oltre a caratterizzare e rendere unica la nostra formazione, le pratiche di ascolto propriocettivo, di conoscenza di sé e di “presenza attiva relazionale”, apprese con la formazione in counseling, sono un’attività che noi counselor manteniamo costantemente viva in tutta la nostra esistenza, sia per accrescere e sviluppare il nostro bagaglio professionale, sia per arricchire di valore e di bellezza l’intera nostra vita?
  6. Se noi counselor rivendicassimo che è la buona gestione in chiave relazionale dei nostri stati di consapevolezza personale a qualificare e caratterizzare il nostro “fare Counseling”, questo non aiuterebbe la nostra individuazione come particolare e specifica categoria professionale?
  7. Non è forse vero che chiunque abbia fatto, e continui a fare, formazione personale-esperienziale di “pratiche di ascolto, di conoscenza di sé e di presenza attiva relazionale”, è perfettamente cosciente di quanto i propri stati di consapevolezza siano una risposta alla quantità e qualità di tale formazione, piuttosto che una risposta corrispondente alle proprie conoscenze teoriche/teoretiche/epistemologiche?

 Insomma:

  1. se la bravura di un counselor dipende dalle sue capacità di stare in contatto, con se stesso e con i propri clienti, gestendone consapevolmente la relazione,
  2. se tale bravura si ottiene e migliora facendo continua esperienza (pratica) di tale contatto,
  3. se questo è il registro che individua l’unicità del Counseling come specifica e particolare relazione d’aiuto professionale,

allora perché assegnare particolare importanza alla dimensione teorica, teoretica e/o epistemologica del Counseling?

A chi dovesse rispondere un qualcosa che, tra il più e il meno, potrebbe risultare come: “perché ce lo impone uno stato generale delle cose che non riconosce valore a ciò che non abbia un chiaro connotato teoretico-epistemologico-scientifico”, vorrei porre la seguente, articolata, domanda:

<< Se riconoscessimo che la “natura” del Counseling sia da ricercare nelle sue funzioni di:

  • accoglienza
  • ascolto
  • presenza
  • autenticità
  • accettazione
  • osservazione non giudicante
  • consapevolezza
  • saggezza
  • comunicazione empatica, compassionevole, efficace

non sarebbe legittimo rivendicare l’irriducibilità del Counseling all’impacchettamento Teoretico-Epistemologico-Scientifico, pena il suo snaturamento?

Con questo non si vuole qui sostenere che, ad essere ben strutturati sul piano delle conoscenze e dei saperi di tipo teorico, si perda la possibilità di poter ben attivare e ben agire le funzioni del Counseling.

Si vuole sostenere che per apprendere la capacità di agire tali funzioni non è indispensabile avere una laurea o chissà quali quantità di saperi teorico-scientifici, perché ciò che permette ad un Counselor di fare Counseling è la padronanza di competenze pratiche, cioè di un “saper fare” che si apprende con una formazione pratica-esperienziale, che certamente si collega  a conoscenze varie sulla natura e sull’esistenza umana, ma che altrettanto certamente non possono essere considerate conoscenze alla portata esclusiva di chi abbia conseguito una laurea.

Come non considerare, d’altronde, quanto LE CONOSCENZE ED I SAPERI TEORICO-SCIENTIFICI SIANO UN PRESIDIO DELLA MENTE ed IL COUNSELING UN PRESIDIO DEL CUORE?

Se diamo più importanza alla mente, piuttosto che al cuore, snaturiamo il valore del Counseling e le sue potenzialità.

Considero la continua insistenza sull’importanza dei saperi di carattere teorico, come presupposto indispensabile del fare counseling, e la continua insistenza sull’importanza dei presupposti scientifico-epistemologici del Counseling, come fonte di sua legittimazione, due risvolti di un pericoloso atteggiamento di insofferenza nei confronti dell’identificazione del Counseling come un “dominio” di competenze pratiche-esperienziali, evidentemente non considerato degno di esprimere pienamente il valore socio-professionale del Counseling; come se un’identità professionale/personale/sociale del Counselor non centrata su saperi teorici ed intellettuali o, meglio ancora, su titoli accademici non potesse avere alcun valore.

Sono orientato a pensare che, ritenere indispensabile  investire sul possesso di titoli accademici e sull’importanza degli studi di carattere teorico, potrebbe segnalare il ritrovarsi in una, o più, delle seguenti possibilità:

  1. se i saperi di carattere teorico non sono ciò che più qualifica il Counseling e ne rende possibile l’esercizio, scegliere di far leva su tali saperi, come strategia di accreditamento della propria attività professionale di Counselor, solo perché tali saperi godono di maggior riconoscimento generale, potrebbe essere un modo nevrotico di gestire la paura di non farcela a darsi valore in proprio come Counselor e a farselo riconoscere sulla base delle evidenze riscontrabili del proprio saper fare Counseling;
  2. quella di non aver ancora fatto piena esperienza di cosa comporti un’efficace applicazione del proprio saper fare Counseling, intendendo con ciò il proprio saper valorizzare, in chiave relazionale, di confronto critico, le proprie pratiche di accoglienza, ascolto, osservazione non giudicante, comunicazione empatica;
  3. quella di immaginare il Counseling come una competenza diversa da quella che è (esattamente come fanno molti psicologi e molti psicoterapeuti).

Forse, a tirar le somme delle questioni qui trattate, e di tutte le altre a queste potenzialmente collegate, un’ultima domanda potrebbe  meglio orientarci a trovare più sane e coerenti risposte.

Io la formulerei così:

E se il Counseling fosse una tipologia di attività irriducibile ad un’unica visione, un’unica definizione, un’unica modalità d’esecuzione e di esercizio?

Insomma, perché chi crede in un Counseling possibile a condizione di approfonditi studi di carattere teorico, non può essere libero di trovare una denominazione di tale tipologia di Counseling, formalizzarne i percorsi formativi, gli obiettivi, le procedure e la gestione e  proporlo liberamente a tutti?

E perché, chi come me è disposto a riconoscere l’utilità e l’efficacia di un Counseling il cui cuore sia “una questione di cuore, di sensibilità e di pragmaticità”, piuttosto che di conoscenze teoriche, non potrebbe fare altrettanto? Dargli cioè un nome, formalizzarne i percorsi formativi, gli obiettivi e le modalità di gestione e proporlo liberamente a tutti?

In una società liberale come si picca di essere la nostra, chi meglio del “libero mercato” potrebbe dare le più congrue risposte?

Se riconoscessimo diverse possibilità di intendere il Counseling (come poi, paradossalmente, è testimoniato dal dato di realtà) e ci preoccupassimo di marcarne le differenze, piuttosto che cercare di imporre arbitrariamente un’unica (la propria) visione del Counseling, non ci guadagneremmo tutti?

Io scommetterei di sì.

Domenico Nigro

Direttore Scuola IN Counseling Lo Specchio Magico Torino

1 comment

  1. Paolo 28 ottobre, 2019 at 10:11 Rispondi

    Uso le parole di un monaco buddista – il venerabile Ajahn Paññavaddho, per sostenere la difficoltà, se non l’impossibilità, di privilegiare la conoscenza teorico-scientifica per svolgere la professione di counselor, o almeno quella professione di aiuto che io chiamo counseling;
    “Nel processo di educazione della mente bisogna sviluppare la saggezza; ma purtroppo per fare ciò non basta la volontà, il solo desiderio di saggezza. Alcune persone possono avere una saggezza innata, ma non riescono a tirarla fuori e usarla correttamente se non hanno anche abbastanza consapevolezza per sostenerla e controllarla. La saggezza non è solo pensiero intellettuale. La sua natura è un’altra, essa può sorgere solo da uno stato di calma interiore. Quindi, condizione necessaria per l’allenamento mentale è raggiungere uno stato di calma…”
    Nella pratica buddista c’è una parola – Citta – che racchiude in se ciò che noi distinguiamo in mente, cuore e consapevolezza: potrebbe essere tradotta nella nostra lingua con “saggezza”. Anche se il contesto in cui si parla di Citta non è quello del counseling, io trovo questo termine, parola, concetto adeguato al tuo ragionamento. Ed in ogni caso se parliamo di “saggezza” non ci troviamo in un campo estraneo al counseling. Il problema forse è che nel nostro modello culturale – che ovviamente si riflette in ogni genere di attività – i due termini “mente” e “cuore” vengono letti e usati separatamente, quando non in termini contrapposti, quando non tendenti ad annullare il valore dell’altro. Ora, io non so come fare viaggiare insieme le due parole, cioè come regolamentarle in senso educativo – formativo, cioè ancora, se considerare una formazione alla “saggezza” – ovvero una formazione che coltivi entrambe mente e cuore, una formazione universitaria o meno. So però che molte volte quando parlo con gli allievi, con i partecipanti di gruppi di formazione, con i clienti, sapere come funziona la mente, conoscere le dinamiche di gruppo e socio-economiche, sapere le difficoltà in cui versa un cliente, non mi aiuta ad aiutarlo/i se non riesco ad entrare in contatto con la sua/loro parte profonda, con il suo/loro cuore, mi viene da dire se non riesco ad essere “saggio”. Saggio nel senso di avere imparato ad avvicinarmi per poi magari allontanarmi, a toccare per poi staccare, parlare e poi zittirsi o magari stare solo in silenzio, a non dire anche se saprei cosa dire … insomma ad essere sensibile e attento all’altro solo con il fine di essere con l’altro. E queste abilità non si possono studiare, non almeno nel modo e nelle forme che io conosco degli studi formali e convenzionali. Ne’ potrei dire, onestamente, che sono gli studi effettuati prima della mia formazione in counseling che mi hanno permesso o facilitato di formarmi in questo ambito. Io penso davvero che un certo tipo di formazione – e tra queste includo quella in counseling – debba restare fuori dai circuiti della formazione “formale” ed allo stesso tempo questa informalità possa e debba avere una propria dignità e riconoscimento ed addirittura essere promossa tanto quanto quella formale. Forse si potrà dire che una formazione di questo tipo mette a rischio i “clienti” di quei professionisti, ma alla fin fine penso che un sistema certificatorio come quello attualmente in uso (cioè che certifica che ho studiato da dottore e quindi sono un medico, che ho fatto un concorso da dirigente e quindi posso dirigere, che ho fatto l’università di counseling e quindi sono counselor, che sono laureato e quindi posso fare la scuola di counseling, ecc. ecc.) non solleva i clienti ed i cittadini in generale dal rischio di incontrare, rivolgersi ad un professionista poco o per niente professionale. Troviamo piuttosto un modo per formare tutti, chiunque lo voglia, alla “saggezza”!
    In definitiva apprezzo la tua battaglia per il riconoscimento del counseling come pratica di, piuttosto che il counseling come studio di …
    Ciao

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