La Teoria della Gestalt, riferimento teorico d’eccellenza per il Counseling.

6.5 La Teoria della gestalt, riferimento teorico d’eccellenza per il Counseling (dal “Manuale per la Formazione IN Counseling)
“La percezione è l’esperienza che muove le nostre esperienze e, con queste, il nostro vivere nel tempo, alias la nostra esistenza.” (Domenico Nigro)
Come già anticipato nel capitolo 6.1 (“Relazione, Cultura e Scienze Umane. I fondamenti del Counseling.”), riteniamo quello della gestalt un impianto teorico fondamentale, per il nostro saper fare counseling,
Dapprima come teoria della percezione visiva, poi come scienza psicologica in grado di spiegare il comportamento umano, la gestalt ha saputo perfezionare e rilanciare i valori di base del nostro saper fare counseling, fornendogli, per di più, svariate ispirazioni metodologiche.
Gestalt è una parola tedesca che non ha corrispettivi univoci, in altre lingue.
Il termine italiano, che scegliamo di usare come sua traduzione (approssimativa), é quello di “configurazione”.
Il concetto di “gestalt”, che qui più ci interessa, riguarda il “come si configurano” gli accadimenti percepiti dalle persone, di volta in volta, nel corso della propria vita.
Parlando di “configurazione”, rivolgiamo la nostra attenzione a come si integrino gli elementi propri dell’accadimento configurato, nella percezione di chi a quello stesso accadimento partecipa o da questo è coinvolto.
Per debitamente comprendere l’accezione di “gestalt come configurazione”, mettiamo a fuoco i suoi presupposti concettuali, quindi:
- La relazione figura-sfondo,
- La vita come architettura di bisogni,
- Il processo di soddisfazione dei bisogni,
- La relazione esistenza- soddisfazione dei bisogni,
- Gli stati di consapevolezza e le condizioni ambientali della nostra vita,
- Il contatto e le sue interruzioni,
- Il “qui e ora”,
- La teoria del campo,
- La chiave fenomenologica dell’esperienza,
- Il lavoro di consapevolezza (che, nel Counseling, qui chiamiamo “Yogging”).
LA RELAZIONE FIGURA-SFONDO
Con il termine “gestalt” si fa riferimento all’insieme di elementi interdipendenti che determinano la percezione di ogni accadimento e/o oggetto con il quale un individuo entra in contatto.
La percezione di un fatto, o di un qualunque oggetto, è funzione della “gestalt” (della configurazione) in cui quello stesso fatto/oggetto è inscritto dal soggetto percipiente.
Poiché l’atto del percepire é un elemento che partecipa alla formazione della gestalt, anche la soggettività del percipiente entra a far parte della gestalt, in modo assolutamente determinante.
Ecco allora che, proprio “l’atto del percepire”, potrebbe determinare quel “valore aggiunto” che “configura” una gestalt come quel “tutto” dal valore superiore alla somma delle sue parti.
La visione della gestalt come un tutto, il cui valore è superiore alla somma delle parti che lo compongono, è una delle sue rappresentazioni più ficcanti.
Scaturisce dall’ovvio riconoscimento del fatto che ogni oggetto, o soggetto, dotato di significato, funzione e valore, sia il risultato di una qualche particolare integrazione degli elementi/parti che lo compongono, al punto che, se tali parti fossero prese una per una, o “accorpate/integrate” in altro modo, senza la particolare intenzione e/o senso della configurazione (giustappunto!) propria di quello stesso oggetto/soggetto, dello stesso quelle parti non restituirebbero più il valore.
In altre parole, a dare identità e valore a un qualunque oggetto/soggetto è proprio il modo in cui le parti che lo compongono sono integrate (alias tenute insieme / configurate); quel modo è ciò che lo qualifica, dandogli quel valore aggiunto che produce un risultato superiore alla somma delle parti stesse che lo compongono.
Ma quali sono le istanze che muovono il modo in cui gli elementi e le parti, di ciò che percepiamo, vengono integrate nella nostra percezione?!
La Gestalt, come teoria psicologica volta a spiegare il funzionamento del comportamento umano, muove i suoi passi dalla teoria della gestalt, come teoria della percezione visiva delle cose (siamo nel terzo decennio del 1900).
“Il tutto vale più della somma delle singole parti” è una considerazione che sintetizza il modo in cui funziona la percezione visiva.
Quando guardiamo una qualsiasi immagine, con la nostra mente, innanzitutto, mettiamo a fuoco la sua figura totale e, quando a questa figura dovessero mancare delle parti, tendiamo, spontaneamente, a completarla, riempiendone mentalmente i vuoti.
Ne è un esempio, classico, l’immagine del panda, simbolo del WWF:
Prima di renderci conto delle linee di contorno e delle parti mancanti, prima di incuriosirci dei vari particolari grafici dell’intera figura, è questa che mettiamo a fuoco e riconosciamo nel suo valore totale e completo, configurato come un tutt’uno.
Aggregare un insieme di singoli elementi visivi in un’unica immagine è una naturale funzione della mente umana, come quella di elaborare le informazioni, che in ogni momento riceviamo, riordinandole/classificandole in stereotipi di senso/significato da noi stessi prestabiliti.
Dal che si potrebbe dedurre che sia il “tutto” osservato il centro dell’attenzione della teoria della Gestalt, mentre ai singoli elementi che lo vanno a comporre, presi singolarmente, non sia data importanza e significato.
Non è proprio così!
Il focus della teoria della Gestalt (come percezione visiva) è “la relazione figura-sfondo”.
Ogni figura (quindi, nel caso, anche ogni suo singolo elemento, particolare, che la costituisce e che, catturando la nostra attenzione, diventa a sua volta “figura”) per assumere forma, senso e valore, ha bisogno di uno sfondo dal quale stagliarsi.
Senza uno sfondo che le permetta di risaltare, una figura non può prendere forma o, meglio, la sua forma, il suo senso, il suo valore, dipendono dallo sfondo che la contiene e sostiene (interessante quanto questa dinamica valga anche per determinare il senso delle parole, che assumono significati diversi, in funzione del contesto sintattico in cui sono inserite; esempio: la parola “botte” può voler significare “un recipiente che contiene vino” oppure significare “il plurale di botta, colpo doloroso”, a seconda della frase in cui è inserita: 1) “vai in cantina a svuotare la botte”, 2) “vieni qui che ti do un sacco di botte”).
Se la figura del panda sopra disegnata, invece che su di uno sfondo bianco fosse su di uno sfondo nero, perderebbe la sua identità e non esisterebbe più.
Avendo evidenziato, inoltre, che una stessa immagine, vista da individui diversi, o da uno stesso individuo, ma in tempi diversi, può essere visivamente percepita in modo diverso, nello “sfondo” che ingloba la “figura”, su cui si rivolge l’attenzione visiva, la psicologia della gestalt considera, anche, lo sguardo, cioè il modo di guardare, di chi osserva quella stessa figura.
Varie sono le immagini che si prestano a esemplificare tale possibilità; una tra le più rinomate è quella che si fa vedere, da alcuni, come il volto di una vecchia signora e, da altri, come quello di una giovane donna. Ora, poiché la figura è sempre la stessa, non può essere lei che si fa vedere in una forma o nell’altra, è chi la guarda che la vede in una delle due (chi guarda può essere una persona diversa o la stessa, che guarda in modo diverso).
Una stessa figura, due gestalt diverse, la cui diversità è data da chi guarda e dal suo modo di farlo.
Che volto vedi, tu, nella figura qui sotto proposta? Riesci a vedere, alternativamente, sia il volto della vecchia signora, sia quello della giovane donna?
(E se per caso non dovessi riuscire a vedere altro che una sola figura, delle due, proprio questo, ancor più, confermerebbe quanto finora detto, sula relazione figura-sfondo che determina la percezione e sul rilievo che in essa ha la soggettività del percipiente!)
Se, per la definizione della figura percepita visivamente, lo sguardo di chi guarda rientra, funzionalmente, nello sfondo, allora è l’intera “soggettività” (cioè i contenuti e i modi dell’esistere, nel tempo, del soggetto che guarda) a far parte dello sfondo, perché ad essa si deve il modo di guardare.
Nella percezione visiva di ciò che guardiamo, lo sfondo inquadra la figura, la contestualizza e la definisce graficamente.
È nella relazione con il proprio sfondo che una figura assume un significato piuttosto che un altro.
Possiamo riconoscere che alla stessa dinamica corrisponda l’intero comportamento umano e non solo il suo guardare?
È nella relazione con il proprio ambiente che il comportamento delle persone assume forma, contenuto e valore.
La psicoterapia della gestalt preferisce il termine “contatto”, a quello di “relazione”, ma di questo parliamo in altri luoghi di questo manuale (non senza cogliere l’occasione per segnalare un’importante differenza di “stile”, tra un fare gestalt counseling, che valorizza il concetto e le funzioni della relazione, e un fare gestalt therapy, che valorizza il concetto e le funzioni di contatto).
Nell’immagine qui sopra riportata, vedere il volto di una vecchia signora piuttosto che quello di una giovane donna, dipende da chi guarda e dal suo modo di farlo.
Ciò che determina il nostro modo di guardare e, per estensione, il nostro modo di stare al mondo, di vivere, di agire, pensare e comportarci, per la psicologia della gestalt, e più in generale per quella umanistica, è mosso, direttamente o indirettamente, dai nostri bisogni.
LA VITA COME ARCHITETTURA DI BISOGNI
Lo stare in vita è una corrispondenza dell’equilibrio omeostatico degli elementi bio-chimici e psicologici che compongono il nostro organismo.
L’equilibrio omeostatico della nostra vita è quella condizione soggettiva in cui tutto ciò che ci serve, per vivere (come struttura-organica bio-psicologica individuale) è funzionalmente integrato, nel nostro e dal nostro organismo, in misura e modi opportuni.
L’equilibrio omeostatico è il risultato cui tende l’intero “funzionare” di ogni essere umano, visto come organismo vivente (esempio: se mangiamo un pasto dal peso complessivo pari a due chili, non pesiamo due chili in più, aumentiamo, momentaneamente, di un peso inferiore ai due chili e solo per il tempo necessario al nostro organismo di metabolizzare quanto ingerito e riportarci al nostro peso standard, alias al nostro equilibrio omeostatico).
L’equilibrio omeostatico è un risultato dell’agire delle nostre funzioni vitali, quando avviene in modo sano e adeguato.
L’agire in modo sano e adeguato delle nostre funzioni vitali (respirare, mangiare/digerire, pensare, compiere qualsiasi azione, provare sensazioni, emozioni e sentimenti) si misura nella loro capacità di sostenere l’adeguato fluire dei processi di soddisfazione dei nostri bisogni.
Non stiamo forse in vita, e in modi qualitativamente diversi, in forza delle nostre capacità/possibilità di soddisfare i nostri bisogni?
Il funzionamento organismico che gestisce il nostro continuo riequilibrio omeostatico è “regolato” dalle dinamiche di insorgenza e soddisfazione dei nostri bisogni.
Quando una qualsiasi parte “componente” della nostra struttura bio-psicologica subisce una “riduzione” (magari, semplicemente, in forza di un suo consumo organico), insorge nel nostro organismo il relativo bisogno di ricostituzione e ripristino di quella parte ridotta/consumata.
La soddisfazione di quel bisogno, e il modo in cui questa avviene, è una delle dinamiche fondamentali che determinano il nostro vivere e la sua qualità.
Poiché le parti organiche che compongono il nostro organismo sono innumerevoli, e tutte soggette a dinamiche di consumo, anche i processi di insorgenza, sviluppo e soddisfazione dei relativi bisogni, di ricostituzione/ripristino, sono innumerevoli.
Una gran parte dei processi di insorgenza, sviluppo e soddisfazione dei nostri bisogni organici sono inconsci (ad esempio quelli che regolano la quantità di piastrine nel sangue), avvengono cioè senza che noi se ne abbia coscienza e cognizione (anche se, data la dimensione olistica della vita, non per questo noi non abbiamo la possibilità di intervenire sugli stessi, visto che gli stessi sono influenzati, seppur a nostra insaputa, dalle nostre attività coscienti, ad esempio fare attività fisica, è un’attività conscia che influenza una miriade di processi di soddisfazione di bisogni inconsci).
I bisogni cui qui rivolgiamo l’attenzione sono quelli che rientrano, e/o possono rientrare, nella sfera della nostra coscienza e conoscenza, cioè tutti quelli di cui possiamo essere, o diventare, consapevoli.
La consapevolezza dei nostri bisogni e dei modi in cui li stiamo soddisfacendo, ci dà la possibilità di intervenire, coscientemente, sugli stessi, determinandone (o almeno influenzandone) gli esiti, cioè la ricaduta di benessere/malessere nella nostra esistenza.
Circa le nostre possibilità d’intervento, consapevole/attivo, sulle dinamiche di insorgenza/sviluppo/soddisfazione dei nostri bisogni, è indispensabile riconoscere tre fatti:
1. che abbiamo una quantità varia e indefinibile di bisogni, alcuni dei quali attivi contemporaneamente, dalla cui soddisfazione dipende il nostro benessere;
2. che non possiamo soddisfare più di un bisogno la volta;
3. che meno male che c’è il tempo, che è uno spazio nel quale possiamo muoverci, incontrando, gestendo e soddisfacendo i nostri bisogni, uno alla volta e, alla fine, tutti; come ci hanno insegnato le sacre scritture, che qui voglio, creativamente, parafrasare: Per ogni “bisogno” c’è il suo momento, il suo tempo per ogni “soddisfazione” sotto il cielo; un tempo per correre e uno per rallentare; un tempo per lavorare e uno per riposare; un tempo per mangiare e uno per ogni altra incombenza corporale; un tempo per gioire e uno per soffrire; e via di questo passo, con questo spirito.
Insomma, stiamo in vita in forza della nostra capacità di soddisfare i nostri bisogni, che sono tanti e che non possiamo soddisfare tutti, insieme, contemporaneamente.
Come facciamo allora?
Per rispondere, ripartiamo dalla relazione “figura-sfondo” così cara alla Teoria della gestalt: soddisfiamo, di volta in volta, il bisogno in figura!
Dunque, la soddisfazione dei nostri bisogni ha un incedere collegato a una dinamica di “figura-sfondo”: soddisfiamo il bisogno che abbiamo in figura, sullo sfondo della nostra esistenza, che galleggia su di un mare di bisogni da soddisfare.
Nelle singole contingenze quotidiane, del nostro vivere nel tempo, la relazione figura-sfondo (alias bisogno-esistenza) configura il bisogno cui prendersi cura, contingentemente.
Fondamentale quindi è Il nostro impegno personale, la nostra responsabilità, affinché la nostra esistenza sia lo “sfondo” capace di soddisfare i nostri bisogni, delineandoli come “figure” ben definite, che scorrono fluentemente nella nostra vita, una dopo l’altra, senza intasamenti, blocchi e infinite sospensioni.
Dai modi in cui viviamo la nostra esistenza, e gestiamo le nostre funzioni vitali, dipendono l’incedere e i ritmi di “insorgenza/sviluppo/soddisfazione” dei nostri bisogni.
Il bisogno da soddisfare (o al quale rivolgere la nostra attenzione, per portarne avanti il processo di soddisfazione) è la figura che dal mare dei bisogni del nostro vivere, di volta in volta, si configura nella nostra esistenza (che agisce come sfondo), emergendo, proponendosi/imponendosi alla nostra coscienza, come il bisogno contingente da soddisfare o cui, di volta in volta, dare almeno una risposta; una risposta che lasci spazio al continuo “configurarsi” di nuovi, seppur ricorrenti, bisogni, nel loro continuo fluente affacciarsi e ritirarsi (perché soddisfatti).
È dal modo in cui gestiamo la relazione tra la successione dei processi di soddisfazione dei nostri bisogni, ciascuno come singola figura emergente dalla nostra esistenza, e la nostra esistenza, come sfondo “opportunamente gestito” di pensieri, sentimenti, interessi, valori, atteggiamenti e relazioni personali, che dipendono le possibilità del nostro benessere.
Un’esistenza “malsana” è uno sfondo che, più facilmente, mette in figura bisogni “malsani”, ma, soprattutto, è un’esistenza che fa molta fatica a sostenere, quando addirittura non lo impedisce, il naturale fluire dei processi di soddisfazione dei bisogni di chi quell’esistenza vive, per quanto questi possano essere sani.
Per soddisfare i nostri bisogni, ci servono buoni stati di consapevolezza, cioè una buona coscienza/conoscenza degli stessi e relative abilità circa i modi di soddisfarli.
Per comprendere come meglio aiutarci a soddisfare i nostri bisogni, può venirci utile la conoscenza del modello che la psicologia della gestalt ha teorizzato come ciclo di soddisfazione di un bisogno, alias processo di soddisfazione dei bisogni, alias ciclo del contatto, che dir si voglia.
IL PROCESSO DI SODDISFAZIONE DEI BISOGNI
Quando un bisogno insorge, organismicamente, cominciamo ad accorgercene perché proviamo relative sensazioni fisiche; esempio: ci viene sete, cominciamo ad averne segno per una sensazione di secchezza delle fauci.
È questa la prima fase del processo di soddisfazione di un bisogno, che chiamiamo quindi di sensibilizzazione.
Le nostre sensazioni fisiche aumentano d’intensità e di quantità. La secchezza delle fauci aumenta e con questa cresce un generale senso d’inquietudine; ci accorgiamo di aver sete; il bisogno di bere occupa la nostra coscienza e come tale è riconosciuto.
Coscienza + Conoscenza = Quasi Consapevolezza (manca l’azione, per essere Piena Consapevolezza).
Siamo nella seconda fase del processo di soddisfazione del bisogno, riconosciuto come sete; questa fase la chiamiamo di consapevolezza.
Il nostro stato di consapevolezza ci dice che per soddisfare la nostra sete dovremo passare all’azione, del bere ma, preliminarmente, a tutte quelle azioni necessarie per arrivare a farlo (che ne so? Andare al fiume a prendere l’acqua!).
Siamo entrati nella terza fase del nostro processo di soddisfazione del bisogno: l’eccitazione.
L’azione richiede energia per essere svolta; l’eccitazione è quella funzione organismica di catalizzazione e raccolta di quell’energia che permetterà lo svolgersi dell’azione funzionale al soddisfacimento del bisogno in figura.
Eccoci nella quarta fase del processo di soddisfazione del bisogno: l’azione.
La fase dell’azione è tutta quella in cui agiamo per arrivare a bere.
Il momento in cui beviamo, introducendo l’acqua nel nostro organismo, è la fase del pieno contatto.
Sin dal primo momento di sensibilizzazione possiamo parlare di contatto.
Per la psicologia della gestalt, quello del contatto è un concetto, e una funzione, fondamentale.
Il contatto è un processo, ciclico. Per questo in Gestalt si parla di ciclo di consapevolezza del contatto.
In altre parole, la nostra consapevolezza riguarda l’incedere del processo del ciclo del contatto, il riconoscimento della fase dello stesso in cui ci ritroviamo e il relativo, congruo e adeguato, atteggiamento comportamentale.
Finora abbiamo visto le prime cinque fasi del ciclo del contatto di consapevolezza del processo di soddisfazione di un bisogno.
Se dello sviluppo di tale processo sono consapevole è perché sono stato in contatto con tutte le fasi che si sono susseguite, del ciclo del contatto (appunto!): dalla sensibilizzazione, alla consapevolezza, all’eccitazione, all’azione, al pieno contatto dell’assaporare il bere e gustarne i benefici effetti sensoriali.
Il gustare i benefici effetti del pieno contatto mi pone nella sesta fase del ciclo di soddisfazione del bisogno: quello della soddisfazione.
Che, dello stesso processo, mi trasporta nella settima e ultima fase, che potrebbe essere, anche, considerata la prima di un nuovo bisogno, se vedessimo (come dovremmo!) il ciclo di soddisfazione di ogni nostro bisogno nella successione/integrazione di tutti i singoli cicli di insorgenza-soddisfazione dei bisogni che compongono, permettono e qualificano, la nostra esistenza (vedi quanto già esposto in questo stesso scritto, a proposito del presupposto concettuale della Gestalt, che qui abbiamo denominato: “la vita come architettura di bisogni”).
Settima o prima che sia, questa fase è quella della confluenza, il nostro stato di abbandono nello sfondo della nostra esistenza, quell’attimo fuggente di stasi in cui ci sentiamo in pace con il mondo e con la nostra vita e non abbiamo il senso di (alias non abbiamo in figura) alcun bisogno da soddisfare: sono tutti indistintamente sopiti, nello sfondo della nostra esistenza, in quel preciso momento della nostra vita, di rilassato abbandono psicofisico.
Dallo “sfondo” della nostra esistenza non compare niente in “figura”, non siamo quindi in contatto con alcun bisogno.
Ma, se siamo vivi, questo stato di confluenza non potrà che essere un attimo, che fugge di fronte all’emergere di una nuova “figura”: quel bisogno che dallo “sfondo” della nostra esistenza insorge come nuovo, o si riavvia dalla fase in cui lo tenevamo sospeso, reclamando i propri diritti di soddisfazione.
Sì, perché la vita è un’architettura, mobile, di bisogni.
La “mobilità” è quella della continua variazione delle singole figure/bisogni che, alternativamente, dallo sfondo della nostra esistenza emergono, crescono, diventano luminose, fino ad un acme. Per poi recedere e tornare a confondersi nello sfondo da cui sono apparse.
Se pensiamo alla vita come a una “architettura di bisogni” da soddisfare, dal modo in cui soddisfiamo ogni singolo nostro bisogno, dipende il nostro benessere:
– Favoriamo o ostacoliamo il naturale fluire dei singoli processi di soddisfazione dei nostri bisogni?
– Permettiamo il naturale riassorbimento dei nostri bisogni soddisfatti nello sfondo della nostra esistenza o li tratteniamo, fino a farli diventare figure fisse?
– Come ci regoliamo, perché non ci siano intasamenti e collassi, nella successione, o nella concomitante, configurazione dei nostri bisogni?
Insomma, il nostro benessere dipende dal modo in cui soddisfiamo i nostri bisogni esistenziali, includendo in questi tutti i bisogni in forza della cui soddisfazione nasciamo, stiamo in vita, cresciamo, ci sviluppiamo, come soggetti definiti in una propria unità fisica, psicologica e sociale.
LA RELAZIONE “ESISTENZA – SODDISFAZIONE DEI BISOGNI”
Abbiamo già inquadrato la relazione “bisogno-esistenza” come struttura dinamica, di “figura-sfondo”, che caratterizza il nostro vivere.
Il bisogno che soddisfiamo, o al cui processo di soddisfazione all’occorrenza ci dedichiamo, di volta in volta, è quello che, contingentemente, diventa “figura”, dallo “sfondo” della nostra esistenza.
È ovvio quanto i modi e la qualità di soddisfazione dei nostri bisogni dipendano dai contenuti, dalle forme e dalla qualità della nostra stessa esistenza, cioè dallo “sfondo” che li “configura”.
Nello sfondo esistenziale, che dinamicamente configura i nostri bisogni, risiede tutto ciò che compone la nostra vita, come singoli individui immersi in uno specifico ambiente, naturale e socio-culturale.
Da tutto ciò che risiede nella nostra esistenza, e dal modo in cui tutto ciò interagisce, dipendono i nostri stati di benessere/malessere.
Su tutto ciò che risiede nella nostra esistenza, e sui modi in cui tutto ciò interagisce, incidono i nostri stati di consapevolezza, mettendoci in condizione di sfruttare, al meglio o al peggio, le nostre risorse ambientali [intendendo l’ambiente come “campo presidiato”, da un lato, dalle sue proprie e specifiche risorse geografiche, sociali, culturali ed economiche, dall’altro, dalle nostre risorse naturali individuali (di organismo corpo-mente dotato di straordinarie potenzialità vitali), dalle nostre credenze, dai nostri valori ed ideali, dalle nostre relazioni interpersonali, ecc. ecc.].
Per migliorare la qualità della soddisfazione dei nostri bisogni, abbiamo allora due piani su cui muoverci:
1. quello dei nostri stati di consapevolezza,
2. quello di tutte le condizioni ambientali che riguardano la nostra vita: il nostro esistere come soggetti in un ambiente geografico e socio-culturale dato.
Quando lo sfondo esistenziale (consapevolezza individuale + condizioni ambientali) è “olisticamente ben funzionante” (cioè ogni componente è sana ed in reciproco contatto), i processi di soddisfazione dei nostri bisogni, spontaneamente, fluiscono, si sospendono e si riattivano alla bisogna, alternandosi come figure che “vanno e vengono” armonicamente, nello scorrere della nostra esistenza, del nostro esserci nel tempo della nostra vita.
I NOSTRI STATI DI CONSAPEVOLEZZA E LE CONDIZIONI AMBIENTALI DELLA NOSTRA VITA
Più volte, in questo manuale, si è parlato di consapevolezza come quello stato dell’essere in cui tutto ciò che accade nei tre distinti piani del nostro “sentire”, del nostro “agire”, del nostro “pensare”, viene conosciuto, o ri-conosciuto, ed armonicamente ed equilibratamente integrato.
Il nostro renderci conto:
1. (da un lato) di quello che proviamo, facciamo, pensiamo, e di come questo stia insieme, influenzandosi reciprocamente,
2. (dall’altro) di come il tutto influenzi il riconoscimento e la valorizzazione delle nostre possibilità di interazione con le risorse ambientali disponibili,
ci permette di agire nella nostra esistenza, interagendo nel miglior modo possibile con gli altri e con l’intero nostro ambiente, anche muovendoci responsabilmente per il suo miglioramento (quello dell’ambiente).
Insomma, lavorare al miglioramento dei nostri stati di consapevolezza si traduce in istanza di miglioramento delle condizioni ambientali in cui viviamo.
Migliorare i nostri livelli di consapevolezza non può che renderci più, e meglio, responsabili delle nostre condizioni ambientali, spronandoci a rispettarle e a migliorarle, dando alle stesse il valore che meritano.
In particolare, consideriamo condizioni ambientali di grande importanza: la quantità e la qualità dei servizi socio-assistenziali e culturali, cui poter fruire; le possibilità di socialità, di partecipazione a manifestazioni artistiche; le possibilità di espressioni personali; quelle di eseguire attività sportive e ludico-motorie, le possibilità di sostentamento materiale, di cibo e di abitazione civile e, più in generale, tutto ciò che rende possibile il nostro vivere ed esistere, dall’aria che respiriamo all’acqua che beviamo.
Se alla qualità delle condizioni ambientali è certamente collegato il benessere di ogni individuo, la sola qualità delle condizioni ambientali difficilmente può essere sufficiente a garantirlo.
A ogni individuo, perché la propria esistenza si inquadri in termini di benessere, necessita la buona qualità dei propri stati di consapevolezza.
Ecco spiegata la centralità del lavoro di consapevolezza, nel nostro far counseling:
– poiché un buon stato di consapevolezza personale è una condizione indispensabile perché un individuo agisca in modo funzionalmente adeguato alla soddisfazione dei propri bisogni e, quindi, al raggiungimento del proprio benessere (sia perché è condizione indispensabile per “sfruttare” al meglio le condizioni ambientali date, sia per il suo essere sprone fondamentale all’agire per migliorarle), è sul lavoro di consapevolezza, relativo agli accadimenti che i nostri clienti stanno vivendo e che in qualche modo li stanno facendo soffrire, che centriamo il nostro fare counseling.
La relazione di counseling è un campo esistenziale, che il counselor organizza e gestisce affinché il proprio cliente possa maturare le esperienze personali di cui necessita per sviluppare, migliorandoli, i propri stati di consapevolezza, relativi alle difficoltà che sta vivendo, rispetto alle quali sta chiedendo aiuto.
Quello del campo è un concetto fondamentale nella teoria della gestalt, assimilabile a quello dello sfondo.
Il “campo”, per la psicologia della gestalt, è assimilabile al concetto di sfondo: tutto ciò che è presente nel delimitato spazio-tempo, che sostiene, dinamicamente, il susseguirsi, la ciclicità e l’alternanza delle “figure” (alias bisogni) di volta in volta oggetto della nostra percezione.
La qualità della nostra percezione, di volta in volta, è funzione del nostro relativo stato di consapevolezza, che (come abbiamo già visto) è una corrispondenza del sano fluire di quello che abbiamo inquadrato come ciclo del contatto (alias ciclo di soddisfazione di un bisogno, alias processo di soddisfazione dei bisogni).
Rivolgiamo allora la nostra attenzione al “contatto”, al “campo” e alla “fenomenologia” delle figure/bisogni che percepiamo.
IL CONTATTO E LE SUE INTERRUZIONI
“Lo studio della maniera in cui una persona funziona nel suo ambiente è lo studio di ciò che accade al confine-contatto tra l’individuo e l’ambiente. Ed è qui, lungo la linea di confine-contatto individuo-ambiente, che gli eventi psicologici si verificano.
I nostri pensieri, le nostre reazioni, il nostro comportamento, le nostre emozioni, sono il nostro modo di sperimentare e di incontrare questi eventi di confine” (Perls F., The Gestalt Approach, Palo Alto, Science & Behaviour Books, 1973).
Il concetto di “contatto”, nella psicologia della gestalt, riguarda principalmente la relazione individuo-ambiente, riferendosi a tutto ciò che, in questa, i nostri sensi “toccano”, rendendo possibili le nostre percezioni.
Infatti, diciamo “sono in contatto con …”, “sto contattando la mia …”, “vorrei riuscire a contattare meglio il mio bisogno di …”, “mi piacerebbe avere un buon contatto con …”, ecc. ecc.
I nostri sensi, e il modo in cui li facciamo funzionare, in collegamento con i nostri atteggiamenti mentali e i nostri comportamenti, rendono possibile il contatto con ciò che vediamo, pensiamo, sentiamo, vogliamo, facciamo, otteniamo.
Ascoltiamo i nostri sensi (etero e propriocettivi)?
Quanto influenziamo, con le nostre attività mentali, la loro azione e i conseguenti comportamenti?
Qual è il miglior contatto che possiamo esperire?
In generale, il miglior contatto possibile è quello che ci permette di soddisfare, al meglio, i nostri bisogni.
In particolare, il miglior contatto possibile è quello che meglio ci orienta alla “configurazione” dei nostri bisogni, facilitando il nostro accompagnare il fluire dei relativi processi di soddisfazione, in ogni specifico e contingente “qui e ora” della nostra esistenza (quello del “qui e ora” è un altro concetto fondamentale della teoria della gestalt, che, a breve, tratteremo).
Abbiamo già presentato il contatto come processo ciclico, che regge la soddisfazione di ogni singolo bisogno di quell’ “architettura di bisogni”, che struttura e dà movimento alla nostra esistenza.
Abbiamo già visto il processo di soddisfazione di un bisogno come sviluppo di fasi che originano da quella della sensibilizzazione, procedono con quelle della consapevolezza, eccitazione, azione, pieno contatto, si concludono con quelle della soddisfazione e della confluenza.
Per riuscire a soddisfare l’intera architettura dei nostri bisogni, riusciamo a vederci in contatto ora con uno dei nostri bisogni, ora con un altro?
Possiamo vederci in contatto, non solo con il nostro bisogno in figura, ma, più in particolare, con la specifica fase del suo processo di soddisfazione?
Possiamo vederci in contatto con un nostro bisogno e, improvvisamente, alle prese con uno nuovo, la cui figura prepotentemente richiama la nostra attenzione, ci distacca dal processo cui eravamo in contatto, proponendocene un altro?
Ci accorgiamo di come la “figura del vecchio bisogno” retroceda (quand’anche non ancora, necessariamente, soddisfatta) nello sfondo della nostra esistenza e, parallelamente, si affacci quella del nuovo bisogno, il cui contatto è più vivido e forte?
Dal modo in cui regoliamo il nostro muoverci da uno all’altro processo di soddisfazione dei nostri bisogni, dipende il nostro stato di malessere/benessere.
Possiamo “salterellare” da uno all’altro processo di soddisfazione dei nostri bisogni, sospendendo il fluire dell’uno e dare priorità a un altro e poi, magari, ritornare sull’uno, secondo contingenti criteri di opportunità/urgenza, e portarlo a compimento.
Non ne possiamo bloccare alcuno, definitivamente o per un tempo “oltremisura”, né possiamo ostacolarne sistematicamente lo sviluppo e la soddisfazione di alcuni, soprattutto se particolarmente importanti, pena il ritrovarci a vivere una vita variamente disperata, piena di frustrazioni, scontentezza e infelicità.
Il modo in cui regoliamo il nostro muoverci dall’uno all’altro processo di soddisfazione dei nostri bisogni, dipende dal modo in cui li contattiamo, ovvero dalle dinamiche di “contatto/interruzione di contatto” che caratterizzano i nostri stati di consapevolezza.
Con i nostri clienti, noi counselor ci serviamo della relazione di counseling come esperienza di contatto dalla quale, loro stessi e noi, possiamo apprendere nuovi e funzionalmente più adeguati modi di affrontare le difficoltà che stanno vivendo.
L’esperienza di contatto, che i nostri clienti vivono nella relazione di counseling, propone lo stesso processo/ciclo di contatto che regge la soddisfazione di ogni nostro bisogno, vitale ed esistenziale.
Vediamolo:
- Pre-Contatto. È la fase corrispondente alla “sensibilizzazione”, quella che la psicologia della gestalt assegna alle “funzioni dell’ES” (le attività inconsce, collegate al funzionamento dei nostri sensi). È il momento in cui il counselor accoglie il cliente, attiva la propria presenza e, con questa i propri processi di “consapevolezza”, invitando il cliente a fare altrettanto.
- Contatto. È la fase della “consapevolezza”, quella in cui le funzioni dell’IO, le attività governate dalla nostra coscienza, entrano in scena. Counselor e cliente si confrontano sui termini della loro collaborazione, cominciano a inquadrarne le ragioni e cosa si ripromettono di fare ed ottenere, entrando così in quella fase che, nella precedente parcellizzazione del ciclo del contatto, abbiamo chiamato di “eccitazione”.
- Pieno contatto. È la fase dell’ “azione”, le funzioni dell’IO occupano la scena, fino al raggiungimento della “soddisfazione” ricercata. Counselor e cliente utilizzano la loro relazione come palcoscenico dove vivere le esperienze di apprendimento necessarie per raggiungere ciò che stanno cercando.
- Post contatto. È la fase in cui si compie la “soddisfazione” voluta e ricercata. È la fase in cui si muovono, sempre secondo la psicologia della gestalt, le istanze della nostra PERSONALITÀ. Counselor e cliente condividono la rielaborazione dell’esperienza vissuta, fissandone i termini di crescita, sviluppo e miglioramento personale, godendone le conseguenze emotive e abbandonandosi a queste (“confluenza”).
Il ciclo di contatto or ora presentato è l’andamento su cui si muove il funzionamento di un organismo sano che, con regolarità e senza interruzioni, procede alla soddisfazione della propria architettura di bisogni.
Negli organismi sani, cioè, tale soddisfazione avviene in forza di una continua, naturale e spontanea, “autoregolazione organismica” delle proprie funzioni biologiche.
Per tutti noi, uomini e donne, nella cui esistenza, alle “proprie funzioni biologiche”, si aggiunge la complessa azione di funzioni psicologiche correlate a complesse funzioni socio-culturali, l’ “autoregolazione organismica” dell’intero sistema di funzioni biologiche/psicologiche/sociali/culturali, che potrebbe garantire il regolare fluire della soddisfazione dei nostri bisogni, si ritrova spesso a subire “inceppamenti” di varia natura, cui corrispondono, immancabilmente, “inceppamenti” vari dei vari processi di soddisfazione dei nostri bisogni.
Questi “inceppamenti”, nella nostra esistenza, sono “interruzione del contatto di consapevolezza”, interruzioni di contatto che bloccano il fluire dei processi di soddisfazione dei nostri bisogni, cioè la mancata chiusura di relative “gestalt, che così restano aperte”, diventando esperienze la cui mancata conclusione ci mantiene in stati personali di malessere, più o meno gravi, “sanabili” solo da una ripresa di quelle stesse, interrotte, esperienze; una ripresa ed una prosecuzione che possa portarle ad una qualche degna, accettabile, conclusione.
Per il cliente, il processo di chiusura delle proprie gestalt aperte, che non riesce a compiere nella propria esistenza, può essere riattivato dalla relazione di counseling.
Poiché la soddisfazione dei bisogni, per un individuo, avviene nelle, e grazie alle, relazioni che intrattiene con il proprio ambiente e, in particolare, con gli altri individui, le relazioni interpersonali rappresentano un campo privilegiato di intervento, finalizzato all’individuazione e allo sblocco di quegli “inceppamenti” dovuti alle interruzioni di contatto nevrotiche, quindi inconsapevoli, messe in atto dagli individui durante il naturale e spontaneo scorrere dei processi di soddisfazione dei propri bisogni, alias dei propri cicli di contatto di consapevolezza.
Le interruzioni di contatto dei nostri cicli di consapevolezza impediscono il sano, adeguato e congruo, funzionare delle nostre relazioni interpersonali, riducendo, così, di molto, le nostre possibilità di soddisfare, grazie a queste, i nostri bisogni esistenziali.
La relazione di counseling è un campo esistenziale in cui il riconoscimento di tali interruzioni permette al cliente di disattivarle, sperimentando e apprendendo nuovi e più funzionali atteggiamenti mentali e comportamentali, beneficiando delle conseguenze già nella stessa relazione di counseling ed aprendosi alle stesse conseguenze nella sua intera esistenza.
Le interruzioni di contatto, che mettiamo in atto, senza neppure accorgercene, sono un surrogato nevrotico delle funzioni psicologiche di chiusura delle gestalt che non sappiamo a chiudere.
La psicologia della gestalt ci ha insegnato che non abbandoniamo mai le nostre gestalt aperte e, quindi, ripetutamente, nelle nostre relazioni interpersonali, ne proponiamo i tentativi nevrotici di chiusura.
Aiutare i clienti a diventare consapevoli delle loro interruzioni di contatto, durante i cicli di soddisfazione dei bisogni, che attualizzano (vedi più avanti, quando si parla del “qui e ora”), immancabilmente, nella stessa relazione di counseling, è una tra le strategie più importanti, che un counselor persegue, nelle proprie relazioni di counseling.
Queste le principali interruzioni di contatto codificate dalla psicologia della gestalt:
- Desensibilizzazione
- Deflessione
- Introiezione
- Proiezione
- Retroflessione
- Proflessione
- Egotismo e
- Confluenza
Prima di procedere alla loro presentazione, richiamiamo l’attenzione sul fatto che tali “interruzioni di contatto” sono “dinamiche relazionali”, corrispondenti ad atteggiamenti comportamentali, nevrotici, messi in atto, da noi stessi, nelle nostre relazioni interpersonali, per sopperire alla nostra incapacità di gestire bisogni che, proprio grazie alle stesse e nelle stesse, potremmo soddisfare.
Siamo organismi sociali, la cui esistenza è resa possibile da una soddisfazione di bisogni, che può avvenire solo in forza delle nostre relazioni ambientali; soprattutto con quelle che intratteniamo con i nostri simili.
Gran parte dei nostri bisogni è di tipo psicologico; bisogni, cioè, che possiamo soddisfare solo grazie alle nostre relazioni interpersonali, quando sono sane e ben funzionanti.
Cosa che avviene quando il nostro stare in relazione corrisponde al buon contatto con i cicli di consapevolezza su cui basiamo la soddisfazione dei nostri bisogni.
In altre parole, il contatto con i cicli di consapevolezza dei nostri bisogni, nelle nostre relazioni interpersonali, rende funzionali queste stesse relazioni, che diventano leva di sviluppo e di soddisfazione dei nostri bisogni personali/sociali.
Le nostre “interruzioni di contatto” sono la risposta che mettiamo in campo quando non riusciamo a superare le difficoltà, materiali e/o psicologiche, cui la soddisfazione dei nostri bisogni ci sottopone; ci servono a fronteggiare, emotivamente, l’incapacità di gestire, nelle e con le nostre relazioni interpersonali, la soddisfazione dei nostri bisogni.
Quindi, interrompiamo il contatto quando:
– abbiamo paura di non farcela, (a soddisfare un nostro bisogno),
– il non riuscire a farcela (a soddisfare un nostro bisogno) ci fa stare troppo male,
– il riuscire a farcela (a soddisfare un nostro bisogno) rappresenta per noi un rischio inaccettabile.
Come abbiamo visto, “interrompere/staccare il contatto” è un’azione che riguarda un’interruzione del ciclo di consapevolezza di un qualche nostro bisogno, che mettiamo in atto in ambito relazionale, impoverendone di gran lunga la valenza.
Le interruzioni di contatto, in ambito relazionale, dei processi di consapevolezza che sostengono la soddisfazione dei nostri bisogni, ci deprivano di una piena soddisfazione di quegli stessi nostri bisogni.
Sono dei “cattivi funzionamenti” del comportamento umano, che hanno, tuttavia, una loro “utilità”: ci permettono di sopravvivere in momenti di particolare difficoltà.
Un “cattivo comportamento utile”, ad esempio, è la “desensibilizzazione”, l’atteggiamento di non sentire gli stimoli dolorosi (fisici ed emotivi), cui la vita, di volta in volta, ci sottopone (“troppo lavoro”, “deficit affettivi” , “offese” varie che ci può capitare di ricevere, ecc. ecc.).
Desensibilizzandoci, impariamo a filtrare il dolore, ma isoliamo noi stessi dai piaceri e dalle gioie della vita.
Le interruzioni di contatto, che qui presentiamo, sono atteggiamenti comportamentali di stampo nevrotico, che, in materia di soddisfazione dei bisogni, confondono i “mezzi” con il “fine”.
Le nostre interruzioni di contatto, dissociando il rapporto tra ciò che facciamo e il loro scopo, rendono abitudinaria la nostra insoddisfazione (sigh!).
Ad esempio, il lamentarsi, visto come caso di “deflessione”: non riesco a ottenere ciò che voglio (il fine), invece di rispondere alla cosa trovando un opportuno rimedio (il mezzo) oppure accettandola, mi lamento, defletto il contatto, dallo stare con ciò che mi può servire a ottenere ciò che voglio, mi sposto su di un piano comportamentale (il lamento) che non può portarmi a ottenere quello che voglio; ma il mio lamentarmi diventa il mezzo che mi permette di stare con la mia impossibilità di ottenere ciò che volevo; insomma il mio lamentarmi (mezzo) diventa un sostitutivo di ciò che avrei voluto ottenere (il fine); mi sono “fissato” su quello che in origine è stato un mezzo per ottenere ciò che volevo (forse da bambino, per ottenere qualcosa mi lamentavo, ottenendo così dalla mamma ciò per cui mi lamentavo?!), ma che adesso è diventato un surrogato del “fine”, perché è ciò che lo sostituisce: il lamento è diventato “fine a se stesso”.
Tratte, principalmente, dall’esposizione che ne fa Petruska Clarkson, nel suo “Gestalt Counseling”, Sovera edizioni, 1992, proponiamo adesso, in carrellata, una sintetica presentazione delle interruzioni di contatto più in “auge”, tra i nostri atteggiamenti mentali/comportamentali.
Desensibilizzazione: metto la sordina alle mie sensazioni, fino a non sentirle più.
Nella “desensibilizzazione”, il nevrotico evita di fare esperienza di se stesso o dell’ambiente, come rimedio al suo starvi, in qualche modo, male.
Esempi:
- mi abituo alle angherie di un coniuge violento, fino a non sentirne più gli effetti dolorosi,
- sono un barbone, vivo per strada, non ho vestiti e ripostigli adeguati, tengo addosso sempre, estate e inverno, lo stesso cappotto: non sento caldo d’estate, non sento freddo d’inverno.
La desensibilizzazione può verificarsi in qualunque stadio del ciclo di consapevolezza; per esempio quando, invece di godere del ristoro, conseguente alla soddisfazione di un qualunque bisogno, ci mettiamo a fare qualcos’altro.
Un certo grado di desensibilizzazione può far parte del vivere sano, ad esempio ogni qual volta ignoriamo un bisogno per soddisfarne un altro, più importante.
Deflessione: evito l’impatto ambientale
Esempi:
- Nevrosi del mangiare al posto dell’amare; mangio per soddisfare non la fame ma il bisogno d’affetto, evito il contatto con il mio bisogno d’affetto, che non riesco a soddisfare, e lo sostituisco con quello del cibo, che riesco a soddisfare.
- Nevrosi del lamentarsi invece dell’agire; vedi quanto già anticipato, poche righe qui sopra.
“Deflessione” significa deviare dal contatto diretto con l’altra persona e/o con l’ambiente.
Deflettiamo ogni qual volta prendiamo le distanze e, con i più svariati sotterfugi dialettici e mentali, non ci facciamo coinvolgere nelle nostre relazioni, con gli altri, con l’ambiente.
Esempio dell’uomo che risponde alla donna, che gli chiede se la ama: «Cosa intendi per amore?».
La deflessione di solito è dannosa e, metaforicamente, sottrae il gusto ai contatti ricchi e vividi.
Tuttavia la deflessione può essere utile per gestire situazioni pericolose (tipo il sottrarsi da forme invasive di propaganda o di disinformazione).
Introiezione: sono governato da “doveri” assunti acriticamente e inconsapevolmente.
L’“introiezione” è il meccanismo iniziale col quale assumiamo, ingurgitiamo senza masticare e/o elaborare, cibo, idee e regole da altre persone, quelle con le quali, in particolare, spesso senza esserne consapevoli, ci identifichiamo.
“Ingoiamo”, e riportiamo nei nostri comportamenti socio-relazionali, regole tipo: “Devi sempre lavorare duro”, “sono più importanti i bisogni altrui”, “devi controllare i tuoi sentimenti”, oppure attribuzioni quali “tu sei quello pigro”, “tu sei più creativo di tua sorella”, “tutti gli uomini della nostra famiglia finiscono alcolisti”.
Le persone che abitualmente introiettano sono sempre prese da ciò che “devono” fare.
Mancano di un senso interiore di auto-governo riguardo ai propri bisogni.
I loro introietti sono estranei a loro stessi e rispondono a degli stereotipi culturali.
L’introiezione è quell’interruzione di contatto che agiamo, nelle nostre relazioni, ogni volta che ci comportiamo in queste non in corrispondenza a cosa vi sta accdendo, ma rispondendo ai nostri introietti.
Esempi:
- Ho “introiettato” il “valore” che chi ritarda a darmi quello che voglio, o addirittura non me lo dà, non nutre buone intenzioni nei miei confronti, quindi, ogni volta che mi ritrovo in una situazione relazionale in cui l’altro non mi dà subito quello che voglio da lui, penso che questi, in assoluto, non abbia buone intenzioni nei miei confronti, e mi comporto di conseguenza.
- Ogni comportamento relazionale conseguente a un pregiudizio (razziale, di genere o legato a qualsivoglia “dover essere”)
L’introiezione è l’interruzione di contatto che più evidenzia, in negativo, l’influenza ambientale, socio-culturale, sugli individui (la persona introietta, acriticamente, senza confrontarlo, quello che l’ambiente gli “somministra”).
L’introiezione può essere utile ogni qual volta si devono apprendere, velocemente, delle capacità e si prende come esempio qualcuno particolarmente abile in quel specifico campo di interesse.
L’introiezione non mobilita l’uomo verso la sperimentazione di ciò che è meglio per sé, negandogli, così, la possibilità di compiere quelle azioni realmente in grado di procurargli piena soddisfazione.
Proiezione: vedo chiare negli altri le mie parti oscure.
Riprendendo le parole di Frederick Perls: «Dicendo proiezione, vogliamo intendere tutte le manifestazioni del vostro comportamento (caratteristiche, atteggiamenti, sentimenti, eccetera) che, pur appartenendo alla vostra personalità reale, non sperimentate mai come tali, ma le attribuite agli oggetti o alle persone che fanno parte dell’ambiente, sperimentandole come qualcosa che è diretto, da parte loro, verso di voi, piuttosto che viceversa. Ad esempio, chi opera una proiezione, inconsapevole del fatto che respinge il contatto con gli altri, crede che siano gli altri a respingerlo; oppure chi, inconsapevole delle sue tendenze a fare approcci di natura sessuale, pensa che siano gli altri a farli nei suoi confronti» (Perls et al.).
Esempio:
- Una persona cara, che rincontro dopo un certo tempo, mi dice che gli è mancato non ricevere mie notizie, volendo così esprimermi il proprio dispiacere per il nostro esserci persi di vista. Io penso che mi stia rimproverando; non mi rendo conto che mi sto giudicando male per non essermi più fatto sentire; non mi accorgo che tale giudizio è tutto mio, non mi accorgo che lo sto “proiettando” sull’altro, come se fosse suo; mi giustifico e, tra me e me, penso male dell’altro, perché mi sta ingiustamente incolpando, senza rendermi conto di quanto tutto questo “elucubrare” riguardi solo me! (l’altro mi stava semplicemente dichiarando un suo sentimento).
Riusciamo a immaginare le conseguenze relazionali di tale interruzione di contatto?
Quand’anche ci fosse un fondo di verità in una proiezione, rimane sempre il fatto che chi proietta rivolge la propria attenzione quasi esclusivamente fuori da sé e, per lo più, sperimenta se stesso come impotente a cambiare le situazioni critiche che lo riguardano.
Retroflessione: faccio a me stesso quello che sarebbe meglio facessi all’altro, oppure faccio a me stesso quello che vorrei che mi facesse l’altro.
“Retroflettere” significa “volgere indietro”. Ci sono due tipi di retroflessione.
Il primo si ha quando facciamo a noi stessi quello che vorremmo fare a qualcun altro (o a qualcosa d’altro).
Esempio:
- Ci diamo pugni in testa per non prendere a pugni l’altro.
- Ci accarezziamo, non potendo, o immaginando di non potere, accarezzare l’altro.
Ciò deriva, ad esempio, dagli esiti per noi insopportabili, relativi a ciò che presupponiamo ci capiterebbe se facessimo quello che stiamo, invece, retro flettendo.
Rivolgiamo l’impulso aggressivo verso noi stessi (forma estrema: il suicidio).
Impariamo a retro flettere quando i nostri sentimenti e i nostri pensieri non sono tenuti in considerazione o quando temiamo d’essere puniti perché esprimiamo i nostri impulsi naturali.
Ci è stato insegnato che l’aggressività è cattiva; valorizzandone il suo senso originale, di “arrivare a”; la psicoterapia della gestalt, invece, la considera indispensabile alla vita, all’amore e all’attività produttiva.
Retro flettere può essere utile (quando ci serve, ad esempio, a non urlare in faccia al capo durante una riunione di lavoro), diventa negativo se non ci consente di esprimere mai la nostra offesa e/o la nostra rabbia.
Il secondo tipo di retroflessione la attiviamo quando facciamo a noi stessi ciò che vorremmo ci fosse fatto da qualcun altro (ci accarezziamo, metaforicamente o concretamente, in cambio di carezze che non riceviamo).
Come rimedio al nostro retro flettere, potremmo, ad esempio, dare a noi stessi l’attenzione, la cura e l’amore che non ci ha dato e/o non ci sta dando chi avrebbe dovuto/potuto?!
Certo che sì! A condizione che questo non ci impedisca di prendere dall’ambiente ciò che lo stesso può darci.
Proflessione: faccio all’altro ciò che vorrei mi facesse.
Formulata da Sylvia Crocker, è un misto di proiezione (indirizzare verso l’altro) e retroflessione (qualcosa che vorremmo che ci arrivasse dall’altro).
Denota un’eccessiva permeabilità in uscita, connotata dall’incapacità di trattenere gli impulsi e di organizzare nel tempo il proprio comportamento.
Esempi:
- Lodo le abilità altrui, per attirare l’attenzione sulle mie.
- Dell’altro, mi basta il “poco” che mi dà, per apprezzarlo, mentre non vedo il “tanto” che do io.
Egotismo: bloccare il fluire della spontaneità con il flusso delle parole.
L’ “egotismo”, in Gestalt, riguarda la propensione a parlare di se stessi e delle proprie relazioni con gli altri e con l’ambiente, invece di dare pieno corso alla fase del ciclo di consapevolezza in essere.
Tale “abitudine” impedisce la realizzazione dei propri bisogni e impedisce l’instaurazione di contatti sani e soddisfacenti.
Esempi:
- L’oratore che si compiace della propria eloquenza, disinteressandosi di quanto e come sia ascoltato;
- Quella persona che racconta tutti i buoni motivi che ha per mettere in atto un certo progetto, senza passare mai all’azione.
- Chi, raggiunto l’orgasmo, invece di godersi i benefici effetti, sproloquia sulla magnificenza della cosa.
L’egotismo è una delle risposte comportamentali prodotte da un eccesso di elucubrazioni sull’esperienza in corso ed è caratteristico di chi, invece di vivere appieno le proprie esperienze, ci si fa su delle “stupende seghe mentali”!
Confluenza: identificazione disfunzionale
La “confluenza” è la condizione di chi non riconosce i confini tra il sé e l’altro.
Se in taluni casi la confluenza è una parte necessaria e sana dello sviluppo (pensiamo al legame madre/neonato), la fusione permanente con l’altro rappresenta un deficit di consapevolezza che rende l’individuo incapace di riconoscere (e quindi soddisfare) i propri, specifici, bisogni, conducendolo alla perdita di sé.
Nella confluenza ritroviamo sia l’incapacità di tollerare la differenza nell’altro, sia l’avversione a riconoscere il proprio valore o i propri limiti. Esempio:
- Denotano confluenza gli atteggiamenti di “scimmiottamento” dei modi di fare e di dire di un qualche proprio “leader” politico, “maestro”, “capo”.
In una relazione a due “fusa”, nessuno dei due può affermarsi e svilupparsi a pieno. Esempio:
- Un figlio che segue le passioni del padre o ne prosegue la carriera.
La confluenza può anche manifestarsi come un’insana, estrema, identificazione con parti specifiche della propria quotidianità, ad esempio il lavoro: identità personale e professionale diventano indistinguibili, con tutto ciò che questo comporta, per l’individuo, in materia di difficoltà esistenziali.
Nelle nostre relazioni, tutte quelle del nostro vivere quotidiano, tutti quanti noi agiamo, a volte l’una, a volte l’altra interruzione di contatto.
Questo avviene, quindi, anche nella relazione di counseling.
Il counselor che aiuta i propri clienti a riconoscerle, dà loro l’opportunità di intervenire sui loro atteggiamenti mentali e comportamentali, modificandoli al meglio; un “meglio” di cui la relazione stessa di counseling è già esperienza.
In essa siamo tutti aiutati a riconoscere e ad accogliere quanto sta accadendo.
Siamo aiutati a modificarlo, sperimentandone le possibilità.
Questo ci permetterà di riprendere i contatti interrotti (le “gestalt rimaste aperte” nella nostra esistenza); cosa che ci permetterà di riattivare le nostre relazioni interpersonali, rilanciandole verso prospettive migliori, soprattutto quelle per noi più importanti.
IL “QUI E ORA”
Quella dell’interruzione di contatto è un’interessante “categoria del pensiero” che la psicologia della gestalt integra a quella della “figura-sfondo”, come visione del modo in cui funziona la percezione, da quella visiva a quella dei nostri bisogni, fino a quella dei modi per il cui tramite li soddisfiamo.
La percezione è l’esperienza che muove le nostre esperienze e, con queste, il nostro vivere nel tempo, alias la nostra esistenza.
Per quanto noi si viva nello scorrere del tempo, per quanto di questo si sappia riconoscere quello passato, quello presente e quello futuro, è sempre e solo nel tempo presente che facciamo esperienza del nostro vivere, ed è, altresì, sempre e solo in uno specifico spazio fisico che le nostre esperienze possono compiersi.
Per questo, quello del “qui e ora” è lo spazio-tempo dell’esistenza di maggior valore per la Gestalt; perché il “qui e ora” è l’unico spazio-tempo in cui è possibile, per tutti noi, mettere in campo le nostre esperienze e farne di nuove (a tal proposito, mi preme richiamare l’attenzione sul fatto che il “qui e ora” è lo spazio-tempo d’elezione del counseling).
Quella dell’esperienza è una funzione fondamentale nella psicologia della gestalt, in quella Umanistica, nel nostro modo di fare counseling è in ogni contesto formativo che si rispetti.
Nella visione gestaltica delle cose sono le nostre esperienze la chiave della nostra crescita, dell’apprendimento, del superamento di ogni nostra difficoltà esistenziale e, quindi, del nostro benessere.
Le difficoltà che la vita ci pone sono innanzitutto quelle di affrontare la nostra crescita, il nostro processo di maturazione personale, come individui dalla complessa soggettività.
Complessa soggettività perché risultante dall’interazione di più piani esistenziali.
Di questi riconosciamo come essenziali, per il nostro vivere, quelli della nostra unità:
- Fisica (siamo un corpo che è un organismo integrato di complesse funzioni bio-chimiche)
- Psicologica (siamo una “unità fisica”, dotata di una vita emotiva e spirituale)
- Sociale (siamo individui la cui esistenza è possibile solo in forza di forme aggregate di vita collettiva)
Su ciascun piano della nostra esistenza (fisico, psicologico o sociale), noi cresciamo e ci sviluppiamo affrontando, di volta in volta, nelle fasi di cambiamento particolarmente critiche della nostra esistenza, “problemi” per la cui soluzione abbiamo, “solo”, un’attrezzatura potenziale; potremo cioè farvi fronte solo dopo aver maturato le necessarie, relative, esperienze di formazione personale e di crescita.
In altre parole, l’attivazione delle nostre “potenziali attrezzature” e il loro adeguato utilizzo richiedono competenze che apprendiamo, progressivamente, in forza delle esperienze che viviamo.
Se queste sono funzionali alla gestione, risolutiva, delle difficoltà esistenziali che incontriamo, noi cresciamo e viviamo all’insegna del benessere; diversamente sono guai!
Un’esperienza è un processo in cui si aprono e si chiudono varie gestalt.
Un’esperienza di crescita è una gestalt la cui chiusura ci ha permesso di apprendere quanto serve per affrontare e superare le difficoltà che stiamo incontrando.
Tale apprendimento è un nostro bisogno, che, come tutti i bisogni, diventa “figura”, quando la nostra esistenza lo richiede.
Tale apprendimento è il bisogno, cioè, che in quello specifico “qui e ora” della nostra esistenza chiede d’essere soddisfatto, affinché noi si possa continuare a stare bene.
La psicologia della gestalt individua nella mancata chiusura delle esperienze, che apriamo per risolvere i problemi esistenziali che incontriamo nel corso della nostra crescita, la principale causa dei nostri malesseri e del loro continuo proporsi.
Insomma:
- Stiamo in vita in forza dei bisogni che soddisfiamo.
- I bisogni che siamo chiamati a soddisfare crescono, e se ne affacciano di nuovi, in collegamento al nostro crescere, come individui con una propria “unità” psico-fisica-sociale.
- La nostra crescita è un processo segnato dal susseguirsi di nuove fasi, caratterizzate da nuovi bisogni, alle quali accediamo senza avere ancora imparato a utilizzare adeguatamente le leve (individuali e sociali) di cui disponiamo, per poterle vivere adeguatamente e bene.
- Per farcela ci vengono in soccorso le esperienze (di crescita) che viviamo.
- Ogni esperienza di crescita è una gestalt, che, appositamente, apriamo e portiamo a compimento.
- In forza delle nostre esperienze di crescita, apprendiamo nuove capacità personali, che ci permettono di continuare a crescere e a vivere bene.
- Quando la gestalt di un’esperienza, che abbiamo aperto per far fronte a un nuovo bisogno, della cui soddisfazione non abbiamo ancora esperienza, non si chiude, la stessa non diventa esperienza di crescita, in grado di permetterci di soddisfare il bisogno che l’aveva aperta.
- Rimaniamo, così, circa la soddisfazione di quel bisogno, in uno stato d’impasse, dal quale potremo uscire solo se, e quando, riusciremo a chiudere quella, relativa, gestalt.
- Tutte le nostre gestalt aperte, sono state aperte in un tempo passato (nel quale non possiamo ritornare!), ma continuano a rimanere aperte nel nostro tempo presente; in esse ci ritroviamo “incagliati” ogni qual volta, nelle circostanze che ci ritroviamo a vivere, il bisogno che le aveva aperte si riaffaccia.
- Ogni sessione di counseling è una circostanza esperienziale idonea per vedere in azione le nostre gestalt aperte e adoperarsi per la loro chiusura, in quell’unico spazio tempo in cui per tutti noi è possibile fare un’esperienza, cioè nel “qui e ora”.
- Non importa quanto tempo addietro sia stata aperta una gestalt. Nel “qui e ora” in cui la chiuderemo, riprenderemo a vivere meglio, aprendoci alla possibilità di ritrovarci a vivere bene.
La psicologia della gestalt ci ha insegnato che non abbandoniamo mai le nostre gestalt aperte e, quindi, immancabilmente ne riproponiamo i tentativi nevrotici di chiusura, ripetutamente, nelle nostre relazioni interpersonali (per questo non c’è bisogno di andare alla ricerca di “antichi traumi”!).
Anche nelle nostre relazioni di counseling, i clienti propongono le loro “interruzioni di contatto”.
Aiutarli a diventarne consapevoli è una tra le strategie più importanti, che un counselor persegue, nelle proprie relazioni di counseling.
Nella relazione di counseling, il cliente porta quei propri problemi che non riesce a risolvere.
Nel modo in cui ce ne parla; in quello con cui organizza la propria narrazione, nella relazione con noi; nei modi in cui gestisce le esercitazioni che gli proponiamo; insomma, in tutto ciò che fa e dice, nella relazione di counseling, mette in scena le proprie “gestalt aperte”.
Noi counselor ce ne accorgiamo, le esploriamo e indaghiamo insieme ai nostri clienti, partendo dal riconoscimento delle “interruzioni di contatto” che il cliente opera nel relazionarsi con noi e in tutto ciò che dice e fa, nella relazione con noi.
Facciamo un esempio:
- un cliente ci racconta del suo problema, quello di suo padre che vorrebbe che andasse a lavorare con lui, nella sua impresa, mentre lui vorrebbe dedicarsi ad altro;
- esplorando i modi in cui tale volontà paterna si esplicita, scopriamo quanto la cosa sia, principalmente, un pregiudizio del nostro cliente;
- il padre avrebbe certamente piacere di avere il figlio con sé, nella propria azienda, ma solo come mezzo da lui considerato più sicuro, per garantirgli un’affermazione professionale;
- in altre parole, ciò cui preme al padre è l’affermazione del figlio, considerata sicura se va a lavorare con lui, ma certamente non osteggiata, se il figlio la realizzasse in altro modo;
- sempre esplorando il caso, con il nostro cliente, scopriamo che sì, lui vorrebbe dedicarsi ad altro e non dover andare a lavorare col padre, ma ha paura di non riuscire a farcela (ad affermarsi professionalmente, facendo quell’altro che vorrebbe fare);
- insomma, condivide col padre la stessa paura, cioè che se non lavora con lui non ce la farà a realizzarsi;
- in questo caso, le “interruzioni di contatto”, che il nostro cliente agisce nella relazione col padre (e che in vario modo esplicita nella relazione con noi), sono due: la confluenza e la proiezione;
- la confluenza è quella di condividere la stessa paura del padre, senza riconoscere di averla lui stesso;
- la proiezione è quella di vedere la propria idea di risoluzione (lavorare col padre) della propria paura, come tutta del padre e non riconoscerla come (anche) propria.
Il lavoro di riconoscimento delle proprie “interruzioni di contatto” avviene nel “qui e ora” della relazione di counseling, stando in un processo che parte dalla valorizzazione di ciò che “sente” il nostro cliente, approcciato per il tramite del nostro stare in ascolto e del relativo invito al cliente a fare altrettanto.
Ci accorgiamo così delle emozioni in ballo e dei bisogni, insoddisfatti, in campo, cioè delle gestalt aperte.
Dal riconoscimento delle gestalt aperte al confronto col cliente, volto a ricercare, facendoglieli simbolicamente sperimentare, i modi (alias i comportamenti pratici) attraverso cui riuscire a chiuderle: questo é il lavoro di consapevolezza che facciamo nelle nostre sessioni di counseling (e sul quale, a breve, ritorneremo).
L’aver accennato ai “bisogni, insoddisfatti, in campo”, ci porta ad affrontare la teoria del campo di Kurt Levin; teoria fondamentale per la psicologia della gestalt.
Non prima, però, di riflettere sulla differenza tra l’essere un counselor che apprende e utilizza, nel proprio fare counseling, conoscenze di vario tipo, tra cui quelle psicologiche, e l’essere una sottospecie di psicologo che, scoprendo che noi counselor, nel nostro fare counseling, ci appoggiano anche su studi di psicologia (come fanno mille altri professionisti, di altri settori, e come fanno, “mutatis mutandis”, quegli stessi psicologi che si abbeverano, anch’essi, dello studio di molte altre “scienze”), arrivano a pensare che il counseling debba essere un “dominio esclusivo” degli psicologi.
Rifletto sul valore umano di quella sottospecie di psicologi, che non può che essere misero, e il loro spessore professionale molto sottile, se non riescono a comprendere che solo chi non ha forza propria gioca le proprie chance di affermazione professionale, cercando di impedire ad altri di mettere in gioco le loro.
Rifletto su quanto facciamo bene noi counselor, che ci impegniamo, invece, ad accrescere la nostra forza, per meglio giocarci le nostre chance di affermazione sociale e professionale.
LA TEORIA DEL CAMPO
Introduco questa sintetica esposizione della teoria del campo, con una citazione tratta da quanto scritto qui sopra, disquisendo del “qui e ora”:
“Per quanto noi si viva nello scorrere del tempo, per quanto di questo si sappia riconoscere quello passato, quello presente e quello futuro, è sempre e solo nel tempo presente che facciamo esperienza del nostro vivere, ed è, altresì, sempre e solo in uno specifico spazio fisico che le nostre esperienze possono compiersi.”
Il “campo”, cui la relativa teoria si riferisce, è lo spazio-tempo che comprende tutto ciò che necessita, perché ciò che succede possa accadere (il fenomeno).
Per la teoria della gestalt, il campo è tutto ciò che contiene la relazione figura-sfondo, che inquadra il fenomeno con cui siamo in contatto, perché lo stiamo osservando o perché ci siamo immersi in toto.
Per questo, tutto ciò che è presente nel campo del nostro esistere ci riguarda, anche quando non è presente alla nostra coscienza.
Con la sua “teoria del campo”, Kurt Lewin offre una chiave di lettura, esplicativa, alla visione olistica dell’esistenza, che la teoria della gestalt fa propria.
La visone olistica è un particolare modo di intendere l’esistere di tutto ciò che è in vita.
Tale visione inquadra ogni essere vivente, e la sua esistenza, come parte funzionale dell’esistenza di un’unità vitale onnicomprensiva di tutto ciò che vive; un’unità vitale che presiede all’esistenza di ogni propria parte e a ciascuna delle proprie parti deve la propria esistenza; un’unità vitale, cioè, dove nulla accade che non riguardi il tutto, dove, cioè, anche ciò che accade nella più nascosta e microscopica parte che la compone ha una qualche ripercussione in tutte le altre.
La matrice gestaltica della teoria del campo è data dalla sua attenzione ai processi percettivi.
In essa, però, i processi percettivi non sono visti solo come funzione collegata al comportamento dei singoli individui, ma come funzione di più complessi sistemi sociali, con una propria, specifica, ubicazione spazio-temporale (anche qui, quindi, il “qui e ora” è fondamentale).
Kurt Lewin, con la sua “teoria del campo”, utilizzando saperi provenienti dalla Fisica, pone la relazione individuo-ambiente come fondamento del comportamento umano.
C’è un campo, che è l’intero ambiente in cui si svolge l’esistenza umana, è c’è il “campo percettivo”, che è tutto ciò che inquadra lo specifico “sfondo” dal quale emergono, “in figura”, i bisogni di ciascun, singolo, individuo.
Poiché il “campo percettivo” è un inquadramento della realtà operato dal singolo individuo, tutto ciò che consideriamo realtà assume significati diversi a seconda di chi lo sta percependo (perché la sua percezione è un processo che si muove in funzione dei suoi particolari bisogni e dei suoi modi di contattarli).
Insomma, alla fine dei conti, per Kurt Lewin, sono i bisogni che determinano le forme e i contenuti della percezione.
La psicoterapia della gestalt mutua dalla teoria del campo, di Kurt Lewin, il concetto di “spazio vitale” al cui interno agiscono tutti i fattori psicologici che muovono il comportamento umano.
Tale spazio vitale comprende, in ogni “qui e ora” dell’esistenza umana, la singola persona e il suo ambiente psicologico, influenzato dal contatto che la singola persona stabilisce con il mondo esterno e dal modo in cui con questo si relaziona.
Lo spazio vitale di ciascun individuo è attraversato da forze di attrazione e di repulsione, funzione dei bisogni in figura, che Lewin, mutuando il linguaggio fisico-scientifico, descrive come specifici vettori energetici.
L’energia psichica che si sviluppa all’interno del campo tende in ogni momento alla ricomposizione dell’equilibrio di tutto ciò che lo compone.
Per la psicoterapia della gestalt, l’insorgenza e la soddisfazione di ogni nuovo bisogno porta necessariamente a un diverso assetto del campo vitale; i processi che muovono la dinamicità degli assetti del campo sono legati alla soddisfazione dei bisogni in campo, la cui definizione è una corrispondenza del susseguirsi delle esperienze umane.
Per questa ragione, non solo la psicoterapia della gestalt, ma tutte le attività di aiuto alle persone che riconoscono il valore di tale teoria, dedicano un’attenzione particolare (come il nostro fare counseling) all’esperienza umana, organizzando sulla stessa il proprio operare.
Per la scrittura di questa parte dedicata alla teoria del campo, molto mi è servita la lettura di:
Spagnuolo Lobb M., Cavaleri P.A. (2013). “Teoria del campo”, in Nardone G., Salvini A. (a cura di), Dizionario Internazionale di Psicoterapia, Milano: Garzanti Editore.
LA CHIAVE FENOMENOLOGICA DELL’ESPERIENZA
Come sappiamo, alle nostre esperienze dobbiamo il nostro modo di vivere; da loro dipende la qualità, o meno, della nostra esistenza.
Noi tutti facciamo esperienza del nostro vivere attraverso la successione degli accadimenti cui partecipiamo o, per meglio dire, attraverso il modo in cui partecipiamo a tali accadimenti.
In “Gestaltese”, potremmo, più appropriatamente, dire: “attraverso il modo in cui contattiamo tali accadimenti”.
Il contatto, che abbiamo con gli accadimenti di cui, e/o con cui, facciamo esperienza, qualifica la nostra percezione di quegli stessi accadimenti e di ciò che li fa accadere.
Ovvero:
- La percezione delle nostre esperienze e, prima ancora, di ciò che le rende possibili, è ciò che ci permette di farle;
- Alla base di ciascuna nostra esperienza risiede, quindi, sia la nostra percezione di ciò che la può rendere possibile e di ciò che può comportare per noi, sia di ciò che poi effettivamente comporterà.
Ora:
- poiché la nostra percezione dipende dal contatto che abbiamo con ciò che percepiamo,
- poiché il contatto che abbiamo con ciò che percepiamo dipende dai nostri bisogni,
- poiché i nostri bisogni sono mutevoli e soggettivi,
anche le nostre percezioni non potranno che essere mutevoli e soggettive e, quindi, a seconda di tale soggettiva mutevolezza, gli accadimenti delle nostre esperienze e le nostre stesse esperienze (alias la loro fenomenologia) avranno forme, sensi e connotati particolari, propri e collegati alla nostra particolare soggettività.
Insomma, l’unica esperienza possibile è quella soggettiva; ogni accadimento è esperito diversamente, da persone diverse.
Così, l’importanza che la Gestalt assegna alla dimensione fenomenologica dell’esperienza si lega alla filosofia esistenzialista (J. P. Sartre), laddove questa assegna valore al modo in cui ci rapportiamo alla realtà, di ciò che siamo e abbiamo, e a ciò che di questa realtà ce ne facciamo, piuttosto che alla realtà stessa, vista come istanza responsabile di ciò che ci capita e di ciò che ce ne possiamo fare.
Viva la nostra diversità, allora, evviva la vita! La cui bellezza dipende dalla diversità cui ciascun soggetto la sperimenta e vive.
Abbiamo già visto che “La percezione è l’esperienza che muove le nostre esperienze e, con queste, il nostro vivere nel tempo, alias la nostra esistenza.”
La fenomenologia delle esperienze per il cui tramite si muove la nostra esistenza, vale a dire la consistenza dei fenomeni (gli accadimenti) che la rendono possibile, è una conoscenza senz’altro utile per migliorare, all’occorrenza, la nostra stessa esistenza.
Come abbiamo visto, però, i fenomeni che caratterizzano le nostre esperienze e, quindi, l’intera fenomenologia della nostra esistenza, sono una funzione delle nostre, soggettive e mutevoli, percezioni, che determinano le nostre stesse esperienze.
Non possiamo quindi accedere alla fenomenologia generale delle esperienze dell’esistenza umana, come categoria universale dell’essere, ma solo a quella delle esperienze dei singoli individui.
Quando una persona vuole migliorare la propria esistenza, non può far altro che intervenire sulle proprie esperienze, facendone altre, diverse e in grado di determinare i migliori esiti ricercati.
Un’esistenza cambia con le esperienze di chi la vive.
Per cambiare opportunamente un’esperienza, abbiamo bisogno di indagarne e conoscerne la fenomenologia, specifica e particolare, funzione delle percezioni, specifiche e contingenti, del soggetto che la vive.
Le percezioni sono la chiave fenomenologica delle esperienze.
Ogni intervento volto al cambiamento del valore di una qualsiasi esperienza umana, non potrà che tenere conto di quella chiave.
Cioè, chi si assume la responsabilità di quell’intervento di cambiamento, dovrà prima imparare a conoscere forme e funzionamenti di quella chiave (le percezioni in causa), per poi scegliere se utilizzarla direttamente, infilandola in serrature che da quella chiave potranno essere aperte (alias ambiti esperienziali compatibili/confacenti), oppure intervenire su quella stessa chiave (quelle stesse percezioni), per modificare quelle sue forme e quei suoi contenuti che impediscono l’accesso a nuove esperienze, in grado di produrre i cambiamenti di miglioramento desiderato.
Come si fa?
Facendo quel “lavoro di consapevolezza” che in questo manuale chiamiamo: “Yogging”.
IL LAVORO DI CONSAPEVOLEZZA (che nel Counseling è l’arte dello “Yogging”)
Fritz Perls, il padre della psicoterapia gestaltica, mettendo insieme gli insegnamenti relativi:
- al valore ed al funzionamento delle percezione umana (visiva, sensoriale e del significato delle cose),
- al funzionamento omeostatico degli organismi viventi
- alla teoria del campo
- alle correnti filosofiche esistenzialiste
- alle filosofie orientali, olistiche
- alla dimensione fenomenologica dell’esistenza
pone, al centro delle sue pratiche psicoterapeutiche, lo stato di consapevolezza delle persone (siano queste in preda ad un qualche “disturbo/malanno” psichico oppure no) cui presta aiuto.
Alla base del suo operare risiede la convinzione, tipica della psicologia umanistica, che l’essere umano sia naturalmente dotato, sin dalla nascita, di tutte le potenzialità necessarie e utili per vivere bene.
Compito fondamentale dell’uomo, crescendo, è di svilupparle, portandole a maturazione, attivandole e trasformandole, da “facoltà potenziali” a “funzioni operative”, che gli permettano, alla bisogna, di provvedere opportunamente alle mutevoli necessità del proprio vivere.
Perché questo “processo di maturazione” proceda, sviluppandosi coerentemente e organicamente, è indispensabile, per ogni essere umano, lo sviluppo e il mantenimento di un proprio, buono, stato di consapevolezza.
Sulla consapevolezza, come stato dell’essere che integra Coscienza, Conoscenza e Azione, e sulle varie possibilità di farlo (di integrare, cioè, Coscienza/Conoscenza/Azione, per vivere al meglio delle possibilità date), nella storia dell’umanità si sono interrogati tutti i filosofi e tutti gli studiosi, interessati al comportamento umano e alle sue inclinazioni.
Coscienza, Conoscenza e Azione sono le tre gambe che ci permettono di muoverci nelle nostre esistenze, qualificandole o svilendole, secondo la loro forza e il loro valore (delle tre gambe!).
Sappiamo che il Counseling nasce come funzione d’aiuto all’orientamento scolastico e all’avviamento professionale.
I primi counselor della storia si ripromettevano di aiutare i propri studenti (i loro “clienti”) a orientarsi meglio nel campo degli studi e del lavoro.
Lo facevano, cercando di muovere al meglio le leve della coscienza, delle conoscenze e dei comportamenti (l’azione!) dei propri “clienti”.
Riuscivano a farlo poggiandosi sulle proprie competenze relazionali, sui propri stati di coscienza e conoscenza, e sulle proprie azioni.
Sin dalle proprie origini il Counseling si è presentato come attività professionale fondata sulla “relazione” e sul “lavoro di consapevolezza”.
Su tale materia, la teoria e la psicologia della gestalt hanno fornito contributi di conoscenza e di applicazioni pratiche formidabili, utili non solo in ambito psicoterapeutico, ma in tutti quegli ambiti professionali in cui la conoscenza del “come funziona la percezione umana” e “come si valorizzi un’esperienza umana” è fondamentale: dalla psichiatria alla pedagogia, dalla storiografia al counseling, dalla grafica pubblicitaria al marketing, dalla filosofia alla mindfulness, dalla sociologia all’urbanistica, ecc. ecc.
Lo stato di consapevolezza, che la Gestalt inquadra, a partire dal suo esponente di maggior spicco, Fritz Perls, è quella condizione di “coscienza/conoscenza/azione” che contraddistingue chi, rendendosi sufficientemente conto di ciò che sta provando/sentendo, di ciò che sta pensando, di ciò che sta facendo, del modo in cui le tre cose stiano interagendo e di come si combinino nella relazione con l’ambiente, alias con le persone con cui è in relazione, riesce a riconoscere la funzionalità di tali dinamiche, intervenendo opportunamente sulle stesse laddove qualcosa non stesse andando per il meglio.
Il “lavoro di consapevolezza” è tutto ciò che possiamo fare per migliorare i nostri stati di coscienza, di conoscenza e d’azione (alias i nostri comportamenti), in vista del miglioramento del nostro benessere e della sua promozione.
Su tale materia la psicoterapia della gestalt, nel tempo, ha proposto e messo a punto un’ampia metodologia.
Per farlo ha sfruttato, producendone varie sintesi, saperi e competenze di ambiti e discipline tra le più svariate.
Indichiamo le più importanti:
- la meditazione
- l’arte
- il teatro
- gli studi sulla comunicazione umana
Dalla meditazione, la psicoterapia della gestalt, ha appreso l’importanza dell’ascolto e dell’osservazione non giudicante.
Dall’arte ha tratto indicazioni sul “confezionamento” dell’esperienza catartica.
Dal teatro ha mutuato straordinarie applicazioni di dramma terapia.
Degli studi sulla comunicazione umana ha fatto propri gli insegnamenti riguardanti il funzionamento, e il valore, della sintassi; in primis, quello riguardante il fatto che, a seconda del modo in cui ce le raccontiamo, le cose cambiano.
Appoggiandosi sulle conoscenze del funzionamento del cervello, innanzitutto quelle che ci dicono che, sul piano del valore di un’esperienza, il cervello può non distinguere il piano immaginario da quello reale dell’esistenza, gli psicoterapeuti della Gestalt (Fritz Perls in testa) hanno utilizzato “l’atto simbolico” come mezzo terapeutico:
- di esplorazione del senso e del valore dell’esperienze umane con cui si ritrovavano a fare i conti,
- per ricostruire quelle stesse esperienze, laddove apparivano come la causa principale del malessere che volevano curare.
Ciò a cui Perls e compagni hanno dato grande importanza sono le correlazioni del “sentire”, del “pensare” e “dell’ “agire”, come motore dell’esperienza umana.
Alla conoscenza, massimamente chiara alle filosofie orientali, della possibilità di “naturali” (sane) corrispondenze tra ciò che proviamo (il “sentire”, cioè tutte le nostre attività sensoriali, consce o meno), ciò che pensiamo (tutte le nostre attività mentali: dall’immaginare al riflettere, dal giudicare all’analizzare, dall’interpretare al credere, ecc. ecc.) e ciò che facciamo (l’intero campo delle nostre azioni e dei nostri atteggiamenti comportamentali), gli psicoterapeuti della Gestalt hanno associato l’individuazione del valore dell’esperienza come strumento cardine dell’esistenza umana, come strumento d’attivazione e sviluppo delle potenzialità di cui ciascun individuo è dotato per poter vivere, crescere e svilupparsi.
Hanno cioè riconosciuto che, proprio perché viviamo in forza delle nostre esperienze, intervenendo sul nostro modo di fare esperienza, si può migliorare non solo la nostra esistenza, si possono anche “guarire” i nostri disturbi mentali e comportamentali.
Ora, quand’è che una persona fa un’esperienza?
Ma non un’esperienza qualunque, un’esperienza attraverso cui attiva e organizza una capacità d’azione funzionale alla soddisfazione di un proprio bisogno, un’esperienza cioè in grado di qualificare la propria vita.
Una persona fa una simile esperienza quando, rispetto a ciò che sta affrontando, in primo luogo, riesce ad avere una chiara percezione:
- di ciò che sta sentendo, di ciò che sta pensando, di ciò che sta facendo,
- dei modi in cui tutto ciò stia insieme, influenzandosi reciprocamente,
- di quanto e come il proprio “sentire”, “pensare” ed “agire” si integri, funzionalmente, nelle relazioni con se stesso, con gli altri e con l’intero proprio ambiente,
quando cioè, conseguentemente, in forza di questa chiara percezione, quella persona si ritrova sostenuta da uno stato emotivo in grado di orientarla verso pensieri ed azioni che la porteranno a soddisfare i propri bisogni.
Quindi, le nostre esperienze dipendono da quanto ci accorgiamo di cosa sentiamo/pensiamo/agiamo e dal conseguente modo in cui lo mettiamo insieme.
Per questo, ribadiamo che il valore delle nostre esperienze è pari a quello della nostra consapevolezza, vista come quella condizione di “coscienza/conoscenza/azione” che contraddistingue chi, rendendosi sufficientemente conto di ciò che sta provando/sentendo, di ciò che sta pensando, di ciò che sta facendo, del modo in cui le tre cose stiano interagendo e di come si combinino nella relazione con l’ambiente, alias con le persone con cui è in relazione, riesce a riconoscere la funzionalità di tali dinamiche, intervenendo opportunamente sulle stesse, laddove qualcosa non stesse andando per il meglio.
Che tale idea di consapevolezza possa tornare utile a chiunque lavori nel campo della formazione, dell’educazione, del recupero funzionale e in ogni ambito delle attività umane, dallo sport all’espressione artistica al mondo del lavoro, è un fatto che non può essere messo in discussione.
Nei termini in cui qui lo vediamo, il lavoro di consapevolezza, chiunque lo proponga, sia questo uno psicoterapeuta o un insegnante, un maestro spirituale o un counselor, un manager aziendale o un allenatore sportivo, è ciò che possiamo fare per migliorare i nostri stati di coscienza circa ciò che sentiamo, pensiamo e facciamo, circa il modo in cui tutto ciò sta insieme e circa gli effetti che questo produce sia nella nostra esistenza, sia in quella di chi è in relazione con noi e sia in quella dell’ambiente in cui (e con cui) viviamo.
Per il nostro fare counseling, il lavoro di consapevolezza corrisponde a tutti i nostri modi di esercitare e di proporre:
- l’accoglienza di quello che sta accadendo (a partire da quello che stiamo sentendo, pensando e facendo)
- l’ascolto
- l’osservazione non giudicante
- l’essere presenti
- il dare feedback
- il confrontarsi
Il lavoro di consapevolezza, che noi counselor facciamo con i nostri clienti, è volto ad aiutarli a “legare” al meglio tutto ciò che sentono, pensano e fanno, perché tal cosa possa permettere loro di fare le migliori esperienze possibili, circa la gestione delle problematiche che stanno affrontando, certi che questo aiuterà il loro vivere, permettendo loro di crescere e svilupparsi al meglio delle loro possibilità.
Ora qual è l’attività umana il cui fondamento è di “legare” tutto ciò che sollecita ed attiva?
Lo “Yoga”!
Ecco perché, in questo manuale, si propone di chiamare “Yoga S.P.A.” il nostro lavorare sul nostro e sull’altrui “Sentire/Pensare/Agire”, sintetizzandolo con il termine “fare Yogging”.
Se sei interessato al counseling, perché vuoi fare un percorso personale, perché vuoi diventare counselor, perché lo sei già e vuoi fare un aggiornamento e/o una supervisione professionale, Contattami.