Ci sono parole che aiutano e ci sono parole che bloccano # Comunicazione efficace

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Comunicazione efficace, precetto n° 8:

“Ci sono parole che aiutano e ci sono parole che bloccano”.

Il contenuto di questo articolo è parte integrante del terzo capitolo del “Manuale per la formazione in counseling”, progetto editoriale pubblicato in corso d’opera in questo stesso blog.

Per averne il quadro completo, clicca qui.

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I DIECI PRECETTI DELLA COMUNICAZIONE EFFICACE

  1. “Prima comprendere l’altro”
  2. “C’è un luogo ed un tempo per ogni cosa”
  3. “Accogliere”
  4. “Ascoltare”
  5. “Agire”
  6. “L’autenticità e il rispetto”
  7. “L’ Io – Tu; il discorso diretto e biunivoco”
  8. “Ci sono parole che aiutano e ci sono parole che bloccano”
  9. “Attenzione al linguaggio non verbale”
  10. “L’emozione non mente come la mente”

 “Ci sono parole che aiutano e ci sono parole che bloccano”

Ci sono parole, modi di dire, atteggiamenti e modi di fare che, sul piano comunicazionale / relazionale, favoriscono il contatto e l’incontro delle persone e ce ne sono altri, invece, che lo ostacolano.

Giudicare, interpretare, moralizzare, banalizzare, contrapporsi, svalutare, tutto ciò che può produrre una separazione (morale, emotiva, affettiva) tra i parlanti, dividendo fra loro ragioni e torti, riduce fortemente il loro potenziale relazionale.

In materia di efficacia comunicazionale, ci sono “espressioni” che funzionano e altre che non funzionano; modi di dire e di fare “opportuni”, altri “inopportuni”.

Vediamoli.

 Meglio ascoltare che parlare

Le parole sono fiumi, che scorrono verso mari lontani.

Scivolano via, tranquilli, sotto i nostro occhi o ci travolgono con correnti impetuose, se in essi ci bagniamo quando sono in piena.

Le parole, per aver effetto, vanno ascoltate.

La quantità di parole che sgorga come un fiume impetuoso dalle nostre bocche non ci permette di ascoltarle mentre le diciamo, né ci permette di ascoltare le parole dell’altro, non lasciandovi spazio.

Una “piena” di parole rompe gli argini dell’ascolto e impedisce il contatto, rendendo inefficace la comunicazione.

Spesso, parlare tanto serve solo a riempire un vuoto di idee sul come far fronte ad ondate, o a secche, di sentimenti che non sappiamo gestire.

 Meglio specificare che generalizzare

Ogni generalizzazione rende indefinito il ruolo e la funzione di chi, a quella generalizzazione partecipa.

A cosa ci serve generalizzare?

A stare ai margini del gioco della vita, a non assumerci responsabilità, a negare il valore di quei mille particolari che rendono unica e individuale ogni esperienza, rendendola importante e significativa.

Insomma, la generalizzazione è la nemica principale di ogni forma di consapevolezza, contrasta l’assunzione di un impegno personale nella determinazione dell’esistente e agisce contro ogni processo di vera crescita.

Noi non viviamo alcun piano generale dell’esistenza; noi viviamo la nostra particolare esistenza, la cui qualità è data dagli elementi specifici che la compongono.

Imparare a riconoscerli ci permette una visione più realistica della nostra vita; una visione che ci aiuta a superare la banalità e la povertà di tanti luoghi comuni, di cui spesso abusiamo e che, molte volte, sono semplice espressione di ignoranza e/o delle nostre nevrotiche (quando non psicotiche) paure e frustrazioni.

Quindi, diamo valore alla nostra comunicazione, impariamo a chiedere (e a chiederci), ad esempio:

– «Cosa ti fa pensare che le cose stiano realmente così per tutti?».

– «La tua affermazione (una qualsiasi generalizzazione tipo: “il lunedì è sempre difficile ricominciare a lavorare”) che rapporto ha con la tua esperienza?», oppure: «Ti ricordi l’ultimo lunedì che, a te, ha fatto piacere andare a lavorare?!».

– In particolare, cosa pensi di poter fare tu?

– In particolare, qual è il tuo interesse?

Specificare (cosa, come, dove, quando, quanto, chi) mi fa scoprire la relatività delle cose e, con essa, le mie (le nostre) possibilità di migliorarle.

 Meglio usare parole a valenza positiva che parole a valenza negativa

Le parole sono pugni, oppure carezze, possono ferire o procurare piacere a seconda del significato, del valore che assumono per chi le usa e per chi le ascolta.

Ci sono parole che rassicurano, che incoraggiano, che apprezzano e approvano, che aprono spazi a scenari emotivi capaci di indurre piacere e benessere, speranza e conforto, stima e fiducia.

Ci sono parole, invece, che intimoriscono, che disprezzano, che rifiutano e producono sofferenza, disagio, paura, disistima e sfiducia.

E allora,

  • tra il dire: “hai sbagliato”, piuttosto che: “vogliamo vedere, insieme, come avresti potuto fare meglio?”;
  • tra il dire ciò che non si deve fare, piuttosto di ciò che si può fare;
  • tra vedere e presentare le cose in negativo, piuttosto che in positivo;
  • tra il dare valore a ciò che non funziona e a ciò che manca, piuttosto che a ciò che funziona e a ciò che c’è;

la differenza che passa è:

  • quella esistente tra la disperazione, la sfiducia e la paura, di chi preferisce “non fare” e si nega, così, ogni possibilità di realizzare i propri desideri, di soddisfare i propri bisogni
  • e la speranza, la fiducia e il coraggio del fare e dell’andare avanti.

Esistono parole e locuzioni che influenzano positivamente e ne esistono altre che influenzano negativamente:

  • parole che evocano scenari negativi (“ti rubo soltanto un momento”, oppure: “posso disturbarti?) e parole che evocano scenari positivi o mitigano l’intrinseco potenziale di negatività: “vorrei dedicare un po’ di tempo alla soluzione di questo problema”, oppure: “è un buon momento per te per…?”;
  • parole che non favoriscono l’incontro, ma la contrapposizione (“ma”, “però”), specie quando sono blandite da enunciazioni preliminari contrastanti (“mi piace la tua proposta, però…”);
  • parole che presuppongono aspetti squalificanti dell’essere e del fare altrui (“ma allora proprio non capisci!”) o, semplicemente, lo ventilano come possibilità (“hai capito!?”);
  • parole che non lasciano spazio alle altrui ragioni e ad altri punti di vista, parole che danno per scontato ciò che vediamo e pensiamo solo noi (esempio: ogni volta che diciamo: “ovviamente”) e, quindi, mortificano l’altro e ogni vera possibilità di scambio comunicativo;
  • parole che non tengono in considerazione l’altrui soggettività e, immancabilmente, producono l’effetto di mettercela contro (esempio: “io al tuo posto farei così”).

Prestare attenzione alle parole che scegliamo, scegliere quelle che presentano un modo positivo di vedere le cose, che rispettano la sensibilità altrui è assolutamente opportuno in tema di efficacia comunicazionale.

 Meglio fare proposte che controproposte

Una proposta ha senso farla quando esiste, per chi la riceve, una possibilità di riceverla e di accettarla.

Aver cura, quindi, di verificare preventivamente l’esistenza delle condizioni di base (materiali, affettive, morali, culturali, emotive) perché una nostra proposta possa essere accolta è una precauzione ineludibile, che sostanzia l’efficacia della nostra comunicazione, diversamente corriamo il rischio di avanzare proposte “indecenti”, attirandoci tutti gli effetti negativamente collaterali che tale cosa può scatenare.

Rispondere ad una proposta che riceviamo con una controproposta, senza prima avervi corrisposto in un qualche modo accettabile dall’altro (anche con un no, purché ben argomentato, comprensibile e motivato), è un’operazione che ci allontana dal nostro interlocutore, quando non ci rende completamente invisi: fare controproposte è una delle modalità più “ingenuamente” contrappositiva che possiamo mettere in atto (esempio: ad un amico che ci propone di andare al cinema, non possiamo rispondere direttamente con la controproposta di andare a ballare).

 Attenzione alla spirale difesa/attacco

È quel circolo vizioso che si crea quando due interlocutori attivano improvvidamente una comunicazione basata sulle accuse reciproche.

Non vi è spazio per l’incontro, né per il confronto, ciascuno guarda ai torti dell’altro e alle proprie ragioni, l’unica relazione possibile è lo scontro.

Paradossalmente, accogliere le accuse che riceviamo, andare alla ricerca delle ragioni (anche solo soggettive) del nostro interlocutore, non rispecchiare le sue modalità, difendendoci e controaccusando, spezza il vortice emotivo che impedisce la comunicazione e il confronto e apre ad una possibilità di incontro, di reciproco ascolto e di comunicazione efficace.

 Il più è come il meno

Nella comunicazione, “il più è come il meno”.

Farsi prendere dall’ansia di dire, di convincere, di farsi prendere sul serio e, per questo, non solo parlare troppo (come abbiamo già visto), ma: cumulare argomenti a favore delle proprie ragioni e/o argomentare su questioni non richieste, facilmente irrita e/o insospettisce il nostro interlocutore.

La comunicazione interpersonale è tanto più efficace quanto più è misurata.

La “misura” giusta è dire quanto serve per farsi comprendere; niente di meno, niente di più.

Quando siamo stati compresi dai nostri interlocutori, aggiungere altre argomentazioni produce l’effetto di infrangere tale misura e di interrompere il contatto e la sintonia tra i parlanti.

Argomentare su questioni non richieste e/o con motivazioni non esplicite può insospettire e mettere sulla difensiva il nostro interlocutore (come, lapidariamente, ci ricorda il famoso detto latino: excusatio non petita, accusatio manifesta).

 Meglio la prima persona singolare che la prima persona plurale

Non nascondiamoci dietro il “noi”, se non ci stiamo riferendo, realmente, ad un “noi” specifico e realmente esistente.

Il ricorso al “plurale maiestatis”, spesso, nasconde il desiderio di non esplicitare una responsabilità personale. In questo modo rendiamo impersonale la relazione e aumentiamo, in essa, il tasso di incomunicabilità.

L’utilizzo del “noi” è tipico dei linguaggi ufficiali e istituzionali, il farne ricorso è, spesso, una strategia volta ad aumentare l’importanza e il valore di ciò che si sta dicendo.

Niente di più sbagliato! Per quanto suggestivo, l’adozione di un linguaggio formale, nelle relazioni interpersonali, inibisce l’incontro sul piano emotivo, crea facilmente disagio e allontana le persone.

 Il lecito e l’illecito della manipolazione

L’uso delle varie coniugazioni del termine manipolare è, per lo più, associato ad accezioni cariche di valenza negativa.

Esiste, tuttavia, un senso del manipolare che è assolutamente positivo, ricco di effetti piacevoli e salutari.

Pensiamo alla manipolazione del massaggiatore, che interviene su di una contrattura muscolare, sciogliendone gli indurimenti, o alla manipolazione di chi modella la creta in un’opera d’arte, o alla manipolazione delle parole coniugate in versi poetici o in discorsi capaci di incoraggiare o di rendere chiaro e comprensibile un concetto, un’idea di crescita e di sviluppo.

Insomma, il “manipolare” inteso come intervento cosciente, trasparente e consapevole, volto ad una modificazione dello stato delle cose capace di produrre benessere e miglioramento, è un’azione assolutamente lecita, nonché tipicamente caratterizzante la “natura” dell’essere umano.

Vi è, però, un “manipolare” che urta il senso comune del lecito, perché mira, subdolamente (in forme nascoste), a conseguire benefici personali a discapito del benessere altrui.

Il piano della comunicazione è un piano che ben si presta ad un simile tipo di manipolazione.

Quando provoco sensi di colpa e/o di inadeguatezza; quando traviso lo stato delle cose; quando uso una falsa logica (tipo: “se non mi aiuti, vuol dire che non mi vuoi bene!”); ogni volta che addosso mie responsabilità ad altri, manipolo e lo faccio illecitamente.

Vi è quindi una manipolazione positiva, sempre benvenuta, e una manipolazione negativa, assolutamente contrastante ogni possibilità di comunicazione efficace.

Comunicare efficacemente ci aiuta e aiuta gli altri ad adottare le migliori scelte, i migliori comportamenti, quelli che maggiormente producono benessere per sé e per gli altri.

Per accedere alla lettura di ciascuno dei 10 precetti sulla comunicazione efficace, nonché a quella di ogni parte del “Manuale per la formazione in counseling”, già pubblicata, clicca qui.

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