Il mio tirocinio di counseling nel Presidio Residenziale Sanitario di….

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Sono Maddy Silvestro (nome di fantasia, utilizzato per questioni di privacy), neodiplomata alla scuola IN COUNSELING Lo Specchio Magico di Torino.

Ho presentato la mia idea di tirocinio nel mese di ottobre 2017 al Dr. Domenico Nigro, Responsabile/Direttore didattico della scuola.

Domenico ha approvato la mia proposta di tirocinio presso la Struttura XYZ (nome in codice per esigenze di privacy; per ugual ragione di tutti i nominativi delle persone citate sono riportate solo le iniziali).

La struttura XYZ ospita pazienti psichiatrici con diverso livello di disabilità, sia cognitiva, sia fisica.

La possibilità di accedere a questa tipologia di tirocinio, mi è stata data dalla conoscenza personale, che ho all’interno della struttura, dello Psicoterapeuta Dr. L. e dello Psichiatra Dr. P.

Il tutto è potuto accadere grazie all’interesse degli educatori della struttura, che gestiscono attività di sostegno alle cure psicoterapeutiche, relativamente alla gestione di laboratori di gruppo, musicali, ludici ed artistici.

Il mio primo contatto, l’ho avuto con l’Educatrice Dr.ssa C. B., responsabile degli operatori della struttura, la quale si è dimostrata disponibile ed interessata a testare attraverso il mio tirocinio un’attività di Counseling su un gruppo di pazienti.

L’esperienza è partita il 7 novembre 2017 alle ore10, nella sala ricreativa della R.A.F.

Una R.A.F. (Residenza assistenziale flessibile) è un presidio residenziale a prevalente valenza sanitaria, destinata ad ospitare definitivamente o temporaneamente (ricoveri di sollievo) soggetti che per la loro gravità e dipendenza non possono essere gestiti in altre strutture richiedendo quindi un livello medio di assistenza sanitaria.

Le figure professionali che prestano lavoro all’interno della struttura sono Medici, Infermieri professionali, Assistenti domiciliari e dei servizi tutelari per l’assistenza della persona, Psicologi, Fisioterapisti, Fisiatri, Geriatri, Animatori.

Il lavoro di gruppo

A XYZ, ho potuto sperimentare e mettere alla prova le mie competenze con un piccolo gruppo di pazienti: A., D., M., R. e S.

La prima cosa che ho sperimentato è stata l’accoglienza, che ho ricevuto e che ho offerto.

Mi ha colpito la curiosità dei partecipanti di conoscere qualcosa di più su questa strana cosa chiamata Counseling. Nessuno di loro ne aveva mai sentito parlare.

Mi è stato chiesto di spiegare con parole semplici di cosa si trattasse.

Ho detto che sarei stata con loro, avrei accolto, ascoltato e non giudicato cosa mi avrebbero detto, restituendo con la dovuta attenzione sensazioni ed emozioni vissute, prestando la massima attenzione a non ferire nessuno, fiduciosa del fatto che questo li avrebbe aiutati a stare meglio.

Il Counseling è un’attività il cui scopo principale è la promozione del benessere.

Si sono dimostrati interessati e questo è stato per me molto importante, mi ha dato la spinta per iniziare a lavorare insieme.

Di queste persone non ho chiesto nulla prima, volevo entrare in contatto con loro ascoltandoli, senza cadere nella trappola della categorizzazione pregiudiziale e soprattutto del mio bisogno di comprendere velocemente le cose e dare/darmi una risposta sempre e in ogni circostanza.

Mi sono presa tutto il tempo per conoscerli ed ascoltarli.

La calma e la lentezza mi ha messo maggiormente in contatto con ciò che vedevo e sentivo.

Ho iniziato chiedendo loro:

– Come state, come vi sentite oggi?

R., dichiara il suo sentirsi sempre inadeguato.

S., racconta di una lite sfociata in violenta fisicità con un’ospite all’interno della struttura e del suo sentirsi pesantemente giudicato.

M., si sente attanagliato dall’ansia, racconta che dopo la morte del padre è caduto in una forte depressione. Parla dei suoi 150 ricoveri ospedalieri in reparti dedicati a malati psichiatrici nell’arco degli ultimi 30 anni. Vive a XYZ da due anni, non è più stato ricoverato in ospedale e presto inizierà un periodo di formazione/stage come giardiniere presso il comune di (omissis), insieme a S. Vorrebbe tanto uscire dalla struttura per poter avere una vita normale, avere una fidanzata e poterla baciare.

D., dichiara al gruppo la sua tranquillità, si sente bene, dice essere una buona giornata, parla di una operazione al piede che desidera fare e spera di farla quanto prima, vuole camminare meglio.

  1. durante il primo giro di presentazione porta allo scoperto, ad intervalli regolari, la sua paura, il suo dolore devastante; tutto questo è causa del “mostro” che vuole fargli del male; il “mostro” lo ha allontanato dalla sua famiglia, dai suoi affetti, dalla sua casa, vuole andare via, ma non sa dove andare, mi dice che sono arrogante perché non lo voglio ascoltare, nessuno lo vuole ascoltare e odia profondamente la Pianura Padana.

Ho fatto fatica a stare con A.; il suo continuo interrompere il lavoro del gruppo alzandosi, e parlando contemporaneamente ai suoi compagni e a me, mi ha messo in difficoltà; non sono riuscita ad entrare in contatto con lui.

All’inizio gli sedevo di fronte, poi mi sono seduta accanto a lui, invitandolo a rilassarsi e a controllare il respiro; la situazione è migliorata.

Per quasi venti minuti non ha più interrotto i lavori del gruppo.

Il dargli attenzione ha sortito qualche effetto positivo?

In quel momento A. ha sentito che provavo a trovare un contatto con lui?

Non lo so, ma ha funzionato.

La calma di A. ha permesso al gruppo di lavorare; altri pezzi di storia sono stati raccontati, altri rimandi altri feedback sono stati espressi.

Il raccontare di S. nei minimi dettagli la lite con B. era sempre più ricco di particolari, un crescendo di informazioni, persone che entravano ed uscivano dalla storia, cose dette, risposte date, un fiume in piena, il suo parlare mi stava ubriacando…mi sono rivista. Ho rivisto una mia modalità, quella d’essere talvolta eccessivamente descrittiva e pignola nel raccontare avvenimenti che mi riguardano. L’ho stoppato e gli ho chiesto come si sentiva ad aver dato un pugno ad una ragazza in un momento di grande rabbia.

Tutta quella marea di parole non serviva.

Mentre lo scrivo ripenso a me e a Domenico, il mio più importante formatore in Counseling; ripenso al mio egotismo in certe situazioni.

“Lo studio della maniera in cui una persona funziona nel suo ambiente è lo studio di ciò che accade al confine – contatto fra l’individuo e il suo ambiente. Ed è qui, a questo confine, che gli eventi psicologici si verificano. I nostri pensieri, le nostre azioni, le nostre emozioni sono il nostro modo di sperimentare e di incontrare questi eventi di confine. Il confine tra me e il mondo è chiamato confine /contatto”. Perls F. The Gestalt approach, Science & Behavior Books, 1973.

Quanto l’eccessivo parlare (EGOTISMO)serva ad evitare il contatto di consapevolezza, mi è stato molto chiaro attraverso il racconto di S.

Con S. abbiamo cominciato a discutere della possibilità di gestire la rabbia nella relazione anche in altri modi.

Ieri, mettermi in gioco in prima persona, come conduttrice di un counseling di gruppo, mi ha fatto scoprire delle cose, mi è servito; ho imparato da ciò che di positivo è accaduto e anche da ciò che non è riuscito, sono entrata in contatto sia con la mia eccitazione, sia con la paura di gestire un gruppo di lavoro tutto mio.

Ascoltare e accogliere il gruppo mi è servito, è stato davvero importante e mi ha permesso di arrivare alla fine.

Il martedì è la giornata che dedico al tirocinio, è un appuntamento importante per me, oltre a sperimentare le mie competenze, il vedere, il sentire, il mettermi in gioco con i partecipanti mi arricchisce; ogni volta qualcosa di nuovo affiora e attraverso ognuno di loro entro in contatto con pezzi importanti di me.

Nel mio primo incontro col gruppo, avevo chiesto ai partecipanti di scrivere di loro, in particolare di una loro qualità.

Quando sono arrivata, l’educatrice, la dr.ssa C. B. mi ha consegnato le lettere che mi avevano scritto, in risposta alla mia richiesta.

Di comune accordo con il gruppo sono state da me lette a voce alta.

Da ciò che hanno scritto, mi accorgo che il parlare delle emozioni li ha coinvolti.

Il parlare di quanto stanno vivendo, nel “qui e ora” della loro esistenza, ha evidenziato il buono che c’è nel vivere il momento.

  1. scrive:

– Il gruppo mi è piaciuto, mi ha insegnato un po’ come gestire le emozioni, sentire la rabbia, la tristezza, riconoscere quello che mi accade. Io penso tanto al passato a eventi traumatici che mi hanno fatto tanto soffrire e arrabbiare, ma è vero che non posso cambiarli.

  1. scrive:

– Mi piace ridere. Mi metto le mani in tasca quando sono arrabbiato. Mi rende contento il sole, ma ora sono triste.

  1. racconta:

– Io ho difficoltà a scrivere le mie qualità, comunque penso di essere leale, altruista, buono, sono anche ossessivo, ma il contatto con il gruppo e gli operatori mi aiuta. Cerco risorse in me che mi diano forza. Ho sempre tanta paura di sbagliare, mi sento tanto inadatto, ho tanti pensieri che mi bloccano. Il passato è vivo e le sensazioni sono pesanti. Il presente se vissuto bene può essere eccellenza, troverò tutto questo dentro di me?

  1. dice di sè:

– Emerge in me il bisogno di concentrarsi sul presente e meno sul passato perché potrebbe crearsi una forte depressione e poi il futuro è imprevedibile. Il presente è dunque l’arma vincente? Nel gruppo l’altra volta abbiamo lavorato e ci siamo concentrati su di esso. Io penso di essere una persona positiva, ma con attimi di sconforto. Le mie sensazioni sono spesso legate alla musica, mia grande passione. Vedremo poi nei prossimi incontri che cosa accadrà alle nostre persone.

  1. racconta:

–  A me succede spesso di perdere la voglia di vivere, poi subito dopo, mi metto in discussione e cerco un contatto. Nello stesso preciso momento c’è una parte di me che mi dice che non posso togliermi ciò che mi è stato dato. Quando sono ansioso sto male, ma chiudendo gli occhi cerco di trovare dentro di me un po’ di pace.

I loro racconti mi hanno colpito; sentire il loro dolore e la loro speranza mi ha dato fiducia.

Nella rabbia e nella tristezza di S., ho ri-visto la mia rabbia e la mia tristezza, la mia difficoltà a perdonare e a perdonarmi.

La voglia di vita di A., il suo voler ridere, mi ha permesso di riconoscere la mia voglia di vivere e di ridere, ma riconosco anche la mia difficoltà in alcuni momenti d’esprimere totalmente i miei bisogni.

L’inadeguatezza di R., la sua difficoltà nel sentirsi accettato, mi ha messo in contatto con il mio BISOGNO NEVROTICO di tendere alla perfezione, farmi carico di troppe cose per sentirmi dire “brava”, per strappare un complimento.

Vedere questa mia modalità, mi ha fatto vedere una nuova parte di me.

Oggi traggo soddisfazione nel fare bene non per compiacere altri, ma per soddisfazione personale, scoprire di poter chiedere aiuto, uscendo   dalla morsa del giudizio mi permette di accettare in prima persona i miei limiti.

Questa mia passata modalità, la rivedo anche nel modo di scrivere di M., ben articolato nella forma grammaticale, con bella calligrafia, la data al fondo del foglio e una firma accurata.

Ho visto chiaramente le volte che ho nascosto il dolore o un disagio, attraverso orpelli e diversivi.

D., scrive come parla, ha sempre un sorriso sulle labbra.

La sua accoglienza verso il gruppo mi far stare bene, mi dà sicurezza, mi rincuora e mi sostiene.

Terminato di leggere i racconti ho visto i loro visi più rilassati, inizialmente avevo percepito un po’ di imbarazzo.

Ho chiesto al gruppo come si sentivano nell’ascoltare le loro storie raccontate da me.

Tutti erano felici; mi hanno detto che ascoltare cercando di tenere lontano il giudizio, come avevo invitato a fare, ha permesso loro di vivere le situazioni più dolorose e tristi, con maggiore serenità. Hanno trovato calma e dolcezza nella mia voce, ho provato una grande emozione attraverso l’ascolto e le sensazioni delle cose che hanno portato.

Mentre leggevo, allontanarmi dal piano mentale del voler capire e comprendere è stato inizialmente difficile, ma a mano a mano che i sentimenti entravano in campo, ascoltare con il cuore è stato più facile.

Il mio tirocinio prosegue, andare a XYZ per me è un appuntamento importante e piacevole, anche se gli ultimi due incontri prima delle festività natalizie li ho trovati particolarmente pesanti.

  1. è preoccupato per la sua salute, si sente molto solo.
  2. è carico di rabbia, è contrappositivo, si oppone su ogni cosa venga proposta sia da parte degli operatori che da parte mia. Ha iniziato lo stage come giardiniere, ma non ne vuole parlare.
  3. ha iniziato anche lui lo stage come giardiniere, dichiara di essere in difficoltà in quanto non riesce ad essere veloce nell’apprendimento pratico/teorico come gli altri partecipanti. Questa situazione lo fa sentire inadeguato e fa aumentare la sua ansia.
  4. è più positivo, parla ancora del suo intervento al piede, ma pare non essere più così importante.
  5. è particolarmente irrequieto, piange e parla della sua famiglia che lo ha abbandonato non prendendosi cura di lui, emarginandolo.

L’educatrice C. B., ha perso la mamma da pochi giorni, anche oggi è con noi, il gruppo non è a conoscenza del suo lutto.

Io mi sento impotente, mi sembra di essere ad un punto fermo. Ho un senso di vuoto.

Chiedo al gruppo se c’è qualcosa di importante di cui vogliono parlare.

  1. prende la parola, parla della poca cura che riceve all’interno della struttura, si sente in gabbia non vuole più stare a XYZ, desidera ritornare a casa. Ha parole pesanti nei confronti degli operatori, dei medici e del loro operato. Si lamenta di ogni cosa legata alla struttura, degli ospiti e delle persone che ci lavorano. Il suo sfogo è violento, la sua voce diventa sempre più forte. Lo ringrazio per il suo intervento e chiedo al gruppo di dargli un rimando.

Osservandoli mi accorgo quanto sono a disagio, nervosi ed inquieti.

I rimandi che accomunano il gruppo sono l’ansia, il dispiacere, l’ingratitudine.

Ansia per il tono e le modalità che S. ha agito nell’esprimere ciò che pensava, il dispiacere e l’ingratitudine per C. B. e gli operatori che quotidianamente lavorano con e per loro.

Decidiamo di comune accordo di lavorare su come sia possibile gestire il nostro disappunto con modalità diverse da come le ha presentate S.

Chiedo al gruppo qualche minuto di silenzio per cercare di sentire con quali sentimenti siamo entrati in contatto.

Il senso (alias giudizio) d’ingratitudine è molto presente, per questo propongo al gruppo di iniziare a lavorare sul “Riconoscimento”, sul come ci sentiamo quando veniamo o non veniamo riconosciuti e come noi riconosciamo l’altro.

Chiedo a tutti di scrivere per la prossima volta qualche pensiero sul come si sentono in merito all’argomento.

Al mio ritorno, trascorse le festività Natalizie trovo delle novità, alcune negative, altre più positive.

  1. S. è scappato da XYZ, nel tentativo di ritornare a casa è stato bloccato dalle forze dell’ordine, attualmente è in un’altra Struttura.

Questo suo gesto mi ha rattristato, per contro, il gruppo è inaspettatamente più numeroso, si sono uniti a noi altre persone, alcuni sono nuovi ospiti, altri, ospiti che per loro scelta non avevano mai partecipato ai nostri incontri.

Sono felice di rincontrare A., D., M. e R., anche loro sono felici di rivedermi, mi sento accolta.

Incontro per la prima volta M. e C. due ragazze di 22 anni, O., A., F., I., D. e P.

Gli operatori F., R e M. mi chiedono di partecipare al gruppo, ne sono felice.  

Oggi siamo veramente in tanti, mi sento bene, anche se la presenza di tante persone mi agita un po’.  

Entro in contatto con la mia paura di non riuscire a gestire il gruppo più numeroso e con il mio desiderio di fare bene, ho comunque fiducia, mi impegnerò affinché il mio sia un buon lavoro.

Mi presento ai nuovi ospiti e chiedo al gruppo di dire come si sentono e come sono trascorse le giornate di festa.

Alcuni di loro sono rientrati in famiglia per qualche giorno, altri hanno trascorso il Natale in struttura. Il clima è buono, sento una buona energia.

Pongo la mia attenzione su tutti, in particolar modo sui nuovi partecipanti che non conosco ancora.

Alcuni di loro sono portatori di disabilità cognitive gravi, la difficoltà per P., I. e D. è restare seduti, il loro stato di agitazione li pone in difficoltà nel restare concentrati ed integrarsi nel gruppo senza prevaricare gli altri. Per poter dare a tutti la possibilità di partecipazione, concordo con gli operatori di fare più pause.

La scelta ha avuto esito positivo.

Iniziando i lavori, C. è la prima a parlare raccontando di sé un passato triste.

Ha trascorso buona parte della sua vita in un campo Rom, a 16 anni perde entrambi i genitori, vive allo sbando per qualche tempo, viene arrestata per furto. Vittima di violenze, a 18 anni diventa madre di una bimba che attualmente è stata data in affidamento.

XYZ per C. rappresenta un luogo riabilitativo, dove poter migliorare la sua vita. Il suo bisogno primario oggi è poter dimostrare al Giudice che potrà vivere in maniera onesta anche fuori dalla struttura, lavorare, vivere in una casa tutta sua e avere la possibilità di rivedere sua figlia.

  1. racconta con serenità gli eventi della sua vita, è pacata, ha un lessico semplice e chiaro.
  2. mi piace, è intelligente e attenta.

Vedo la sua voglia di farcela, (una “voglia di farcela” che ben riconosco come mia assidua compagna), entro in contatto con la mia fiducia e questo mi fa stare bene.

  1. è una ragazza di colore, saluta con un cenno del capo il gruppo e me.

Nella stanza la temperatura e più che confortevole, ma lei resta avvolta nel suo piumino con il capo coperto dal cappuccio, lo sguardo fisso al pavimento e le braccia conserte. Non guarda nessuno. Le chiedo come si sente e se ha piacere di dire anche una sola parola per esprimere il suo stato d’animo. Non la forzo, le lascio ampio spazio. Di getto mi dice che è angosciata. La ringrazio.

P., I., O., A., F. e D2., sono portatori di disabilità cognitive gravi.

Con I. e D2 trovo difficoltà ad entrare in contatto.

  1. è un uomo originario del Veneto alto quasi due metri con una corporatura possente. Ad intervalli regolari, alzandosi in piedi, esordisce con il desiderio di bere un buon bicchiere di vino rosso, decanta quasi in poesia la bontà del vino e i suoi effetti benefici, sembra vivere in un suo mondo staccato da tutti e da tutto.  Dopo circa una mezz’ora mi si avvicina e mi chiede il permesso di uscire. Guarda con molto interesse la mia maglia bordeaux, quel colore dice piacergli molto, penso che gli ricordi qualcosa.

D2 ha un’espressione sofferente, i suoi occhi sono persi. Gli chiedo come sta, come si sente, scoppia a piangere. Mi avvicino a lui, lo guardo negli occhi e gli dico che può fare ciò che si sente, nessuno gli chiederà di fare o dire qualcosa almeno che lui non lo desideri. Sembra calmarsi.

O., F. e A. si limitano a salutare.

  1. è un ragazzo di poco più di trent’anni; il suo nome è P., ma lo chiamano con un diminutivo perché è piccolo e minuto. Aveva partecipato al mio primo gruppo, ma dopo pochi minuti era stato allontanato dagli operatori per la sua agitazione, il tono elevato della sua voce ed un lessico ricco di parolacce.

Mi saluta, si ricorda di me, mi si siede accanto, è ordinato e composto, la sua postura impettita sulla sedia mi fa vedere la sua gran voglia di essere notato. Gli esprimo la mia contentezza nel rivederlo.

Mi destabilizza la presenza dei nuovi partecipanti.

Con il gruppo iniziale avevo già preso confidenza, il nuovo e l’inaspettato se da un lato mi entusiasma, dall’altro fa emergere la mia difficoltà nel ricreare un nuovo equilibrio all’interno del gruppo.

Chiedo qualche minuto di silenzio in cui faremo attenzione al respiro, spero faccia bene a tutti, ne ho bisogno anch’io.

Mi rendo conto che vedere il dolore di D2 mi fa soffrire, vorrei fare di più, gli dico che se durante la mattinata avrà bisogno di me io ci sarò. Cerco di rassicurarlo/rassicurarmi.

Il silenzio e il respiro fanno cambiare energia nella stanza e in tutti noi. Aiutano il mio riconoscere cosa c’è nel campo ed il mio accoglierlo; questo mi apre a visioni più chiare e mi orienta sul da farsi.

La postura dei presenti mi parla dei loro stati d’animo.

Il lavoro fatto a Scuola su ciò che il nostro corpo dice di noi, mi viene in aiuto.

La volta precedente il mandato assegnato era quello di provare a raccontare come ognuno di loro si sentisse nell’essere riconosciuto e nel riconoscere l’altro.

Oggi, l’aumentata quantità di partecipanti e la loro eterogeneità, mi fa sperare che faremo un buon lavoro.

Vedo che qualcuno è più distaccato nei confronti dei nuovi partecipanti.

Chiedo a tutti di focalizzarsi sulla relazione tra il “saper accogliere” e l’ “essere riconosciuti”; mi piacerebbe se si arrivasse a vederne il collegamento.

I feedback sono focalizzati solo su come ognuno vuole essere visto dai compagni, dai medici, dagli operatori; nulla viene espresso riguardo al riconoscere l’altro.

Lo faccio presente. C. non capisce e mi chiede di fare un esempio.

Prendo spunto da P. e dico:

  • Oggi P. è stato in ascolto, non ha interrotto, ci è piaciuto come si è comportato?
  • Vogliamo dare tutti a P. un rimando? Al massimo due parole che ognuno di voi dirà direttamente all’interessato.
  • P. per contro potrà dire qualcosa solo alla fine.

Tutti, compresi gli operatori, hanno iniziato dichiarando:

  • Tranquillità, sorpresa, soddisfazione, felicità, stupore, calma, OK, sei mio amico, bravo P., sto bene.

Ho dato anch’io il mio feedback a P. dicendogli che ero orgogliosa di lui, a questo punto tutti lo hanno applaudito.

  1. P. si è alzato in piedi e ha urlato: – “EEEEEE… SONO CONTENTO…E BASTA!”.

L’allegria di quel momento testimonia il valore del lavoro fatto.

  1. si è tolta il giaccone, ha guardato i suoi compagni e mi chiede quando ritornerò.

La chiusura dei lavori è accompagnata da rimandi positivi.

D2 mi ringrazia.

Dietro richiesta del gruppo, la prossima settimana parleremo ancora di riconoscimento e di rispetto.

La mattinata volge al termine, il lavoro fatto è stato buono, sono soddisfatta.

Ci salutiamo e mi incammino verso casa.

Il viaggio di ritorno, mi dà sempre modo di ripensare a ciò che è stato fatto.

La potenza del feedback per P., la sua gioia, la generosità e l’accoglienza del gruppo, mi ha dato la possibilità di mettere in pratica il concetto di riconoscimento.

Se avessimo affrontato la cosa discutendone, non saremmo venuti a capo di nulla

Usciti dal piano mentale, ascoltando le nostre emozioni, siamo usciti da una situazione stagnante.

Le mie giornate a XYZ si susseguono.

Ogni volta il gruppo mi porta nuove cose, nuovi racconti, fatti accaduti durante la settimana su cui poter lavorare.

Da diverse settimane, il “riconoscimento” è nel campo, sento la fatica nel far vedere l’importanza del riconoscere l’altro e il farsi riconoscere.

La critica e il giudizio sono sempre molto presenti nei racconti e nelle rimostranze di alcuni dei partecipanti.

Ascoltandoli mi accorgo delle loro difficoltà ad accettare il rispetto delle regole impartite dagli Educatori, dagli OSS e dalla Struttura medica.

Sento tensione e ansia, mi manca l’aria.

Entro in contatto con la mia fatica ad accogliere regole, autoritarismi, imposizioni.

  1. vuole raccontare qualcosa di sé, è stata una settimana difficile, la sua ansia lo ha perseguitato, è stato molto male. Due giorni prima del nostro incontro si è procurato volontariamente una lesione al braccio. Mi dice che per calmarlo e toglierlo da una situazione di pericolo gli hanno fatto “la puntura”, è accasciato sulla sedia, non ha la solita voglia di partecipare, lo vedo e lo sento lontano.
  2. ama parlare, la prima e l’ultima parola sono sempre le sue, oggi non è così, vedo il suo dispiacere per ciò che ha fatto, giura a sé stesso e al gruppo che non succederà mai più.

Lo invito a prestare attenzione a come si sente nel giudicarsi e a riflettere se questo lo possa aiutare.

“Non si può, razionalmente, sentirsi responsabili di cose con cui non si ha contatto alcuno. Ciò vale sia per quanto accade in luoghi lontani e di cui forse non si è neanche a conoscenza, sia per quanto riguarda quegli eventi della propria vita di cui non si è consapevoli. Quando invece si stabilisce un contatto con essi e si diventa intimamente consapevoli di cosa essi sono e del ruolo che svolgono nel nostro funzionamento, allora se ne diventa responsabili, non nel senso di doverci assumere un peso che prima non portavamo, ma invece nel senso che prendiamo coscienza del fatto che siamo noi stessi a determinare nella maggior parte dei casi se questi eventi debbano o no continuare ad esistere, Questo concetto di responsabilità è profondamente diverso da quello che implica un senso di biasimo morale” ( Teoria e Pratica della Terapia della Gestalt. F.Perls-R.F. Heffeline-P.Goodman).

  1. si aggancia al discorso di M. manifestando la sua insoddisfazione. Vorrebbe fare qualche piccola attività lavorativa all’interno della struttura per sentirsi e rendersi utile.

Le attività di gruppo che coinvolgono gli ospiti della struttura sono diverse, ma non sembrano essere adeguate ai loro bisogni.

Vedo in questo il loro bisogno di crescere e di sperimentare qualcosa di nuovo.

Sto con la mia impotenza di non aver soluzioni pratiche da proporre

  1. mi chiede cosa si può fare per combattere l’ansia.

Rispondo che non esiste una soluzione che vada bene per tutti. Io non ho questa soluzione. Lo invito a pensare cosa gli piace fare, cosa lo anima e lo coinvolge. Dedicarsi ad un interesse intellettuale o manuale potrebbe distoglierlo dallo stato d’ansia in cui si trova. Mi ascolta, sembra accogliere il mio pensiero.

Il gruppo di oggi porta allo scoperto la voglia di libertà, di autonomia, del fare, del muovere.

Provo a condividere con loro ciò che vedo e che sento. Pongo l’accento proprio sul desiderio di cambiamento che colgo nel loro raccontarsi.

Gestire il lavoro oggi mi è stato difficile. Alcuni di loro erano particolarmente accesi e attivi nel raccontare, altri ascoltavano passivamente, in alcuni vedevo quasi uno stato di arrendevolezza. Uscita dalla mia giornata di tirocinio, non mi sono sentita particolarmente soddisfatta. Ritornando a casa avevo un senso di fastidio, di difficoltà, quasi di insoddisfazione, non avevo fatto abbastanza.

Ho portato, in supervisione, questo mio sentire a Domenico, che mi ha ricordato che noi counselor non risolviamo i problemi altrui, ma aiutiamo i nostri clienti attraverso l’ascolto e l’accoglienza.

Io non posso aggiustare nulla. Forse ho avuto questa presunzione.

Dopo una settimana, mi dirigo verso XYZ con un senso di fiducia, ogni volta è una sorpresa. Penso a cosa troverò, cosa sarà accaduto, se il lavoro fatto la settimana precedente avrà portato qualcosa di buono.

Arrivata sono accolta con gioia.

La settimana precedente si era deciso con gli operatori di limitare le partecipazioni al gruppo.

Per alcuni di loro lo stare seduti anche solo dieci quindici minuti risulta essere troppo faticoso.

Sono ad aspettarmi M., C., R., D., O., A., F. e D.

Nell’aria sento una buona energia, guardandoli vedo gioia ed eccitazione. Sono ansiosi di raccontare. Guardandoli non sembrano le stesse persone che avevo lasciato sette giorni prima. Sono incuriosita.

I rimandi sono tutti buoni, ognuno di loro trasmette una buona dose di positività.

Mi rivolgo a M., gli dico che sono contenta nel vederlo sorridente e attivo. Mi dice di essere “molto molto molto” felice perché grazie a cosa era stato detto, è partito un bellissimo progetto all’interno della struttura.

Si è costituito un gruppo di lavoro di manutenzione e risanamento dell’area verde di XYZ. Ognuno di loro è coinvolto in qualche lavoro, dal raccogliere i rami secchi, foglie, eliminazione/sostituzione di piante, piccoli movimenti terra per permettere di far posto a nuove piante, travasare e invasare fiori nelle ciotole, rifacimento del prato erboso. M. è responsabile del lavoro e dei partecipanti. Sta mettendo a frutto lo stage in giardinaggio fatto qualche tempo fa. Lavorare con la terra lo appassiona, coordinare il gruppo gli piace ancora di più. I compagni gli riconoscono il suo essere responsabile. “Ma il bello deve ancora arrivare”, mi dice: – non ho più avuto attacchi d’ansia, la sera ero talmente stanco che fatta la doccia e terminato di mangiare crollavo nel letto e dormivo fino alla mattina successiva senza prendere la mia solita pastiglia.

La sua felicità è incontenibile. Riconoscersi capace, riconoscere il lavoro degli altri, sentirsi leader di un gruppo di lavoro, e avere da parte dello psichiatra l’autorizzazione a eliminare il sonnifero, lo hanno allontanato dallo stato d’ansia in cui si trovava. Resto in silenzio, assaporo quel momento con gioia e soddisfazione.

Mi viene in mente un film visto alcuni anni fa tratto da una storia vera. Un gruppo di pazienti psichiatrici che manifestano la loro voglia di fare. Accompagnati dal loro responsabile cominciano a creare parquet artistici con pezzi di legno di scarto regalati. Per il mondo considerati “picchiatelli”, diventano provetti artisti falegnami, e i loro parquet sono richiestissimi. Il titolo del film è “Si può fare”.

In quel preciso momento anch’io l’ho pensato: “Si può fare!”.

Il percorrere strade nuove, il mio invito a trovare qualcosa che potesse entusiasmarli, collaborare maggiormente con gli educatori, ha permesso il realizzarsi di una cosa bella e importante con risvolti di benessere per ognuno di loro.

Chiedo ad ognuno di esprimere il proprio stato d’animo.

  1. manifesta il suo sentirsi utile, D. e R. sono contenti per il clima che si è creato grazie a questa iniziativa, A. non parla, ma sorride, F. mi dice che va bene, O. è un po’ imbarazzato.

Gli chiedo come si sente:

-Il mio compito era quello di innaffiare le buche fatte prima di mettervi le piantine, ma io le ho innaffiate con la mia pìpì, non avevo capito bene.

Tutti ridono, ma al contempo tutti lo giustificano e prendono le sue parti.

Questa giornata mi ha arricchito, ho capito quanto l’entusiasmo, la fiducia e la volontà siano fondamentali per ognuno di noi.  

Ho sentito quanto sia bello provare com-passione e quanto sia altrettanto importante allontanarsi dal provar pena per persone e situazioni.

Nel salutarli, ho dato la mia disponibilità a colloqui individuali di Counseling. Alcuni hanno aderito alla mia proposta.

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