Il lavoro di consapevolezza funzionale all’apprendimento del “Saper fare counseling”, facendo “yogging”.

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Il lavoro di consapevolezza funzionale all’apprendimento del “Saper fare counseling”, facendo “yogging”.

In questo capitolo del “Manuale per la Formazione IN Counseling” verranno presentate le esercitazioni di base della Formazione IN Counseling, quelle da cui traiamo maggiore ispirazione per lavorare allo sviluppo dei nostri stati di consapevolezza e al miglioramento della conoscenza di noi stessi.

Dalle esperienze vissute per il tramite di tali esercitazioni e dagli sviluppi di consapevolezza personale che ne sono scaturiti ho partorito l’idea dello “yogging” come attività caratterizzante il nostro fare counseling:

–              facciamo “Yogging” ogni qual volta che, per meglio affrontare una nostra difficoltà del vivere, ci concentriamo sul nostro “Sentire” (ci mettiamo in ascolto e lo indaghiamo fino a riconoscerlo) e ne analizziamo le corrispondenze con il nostro “Pensare” (in tutte le sue declinazioni) e con il nostro “Agire”, magari inventandoci delle esercitazioni psico-motorie mirate a mettere meglio in luce ciò che “Sentiamo-Pensiamo-Agiamo”.

Bene! Le “esercitazioni psico-motorie” che proponiamo ai nostri clienti, come mezzo per fare yogging insieme a loro, e aiutarci così a portare avanti le nostre relazioni di counseling con loro, sono tutte delle “derivate” delle “esercitazioni di consapevolezza” che presenteremo in questo capitolo.

La teoria della Gestalt è la cornice teorica di riferimento di quanto verrà qui proposto.

Per questa ragione invitiamo te che leggi, se della Gestalt non hai una conoscenza approfondita, a concederti un’attenta lettura del capitolo in cui, in questo stesso manuale, ne presentiamo i fondamenti teorici [guarda in particolare la fine dello stesso, laddove si presenta il “decimo presupposto concettuale”, quello intitolato: “Il lavoro di consapevolezza (che nel Counseling è l’arte dello “Yogging”)”].

Nel presente “Manuale per la Formazione IN Counseling” è centrale l’idea della relazione di counseling come “un campo coltivato perché crescano fiori di consapevolezza”.

Fuori di metafora, il counseling che ci piace è quello centrato sul lavoro di consapevolezza, intendendo con questo  l’insieme di attività cui si dedica chi vuole meglio integrare, nel rapporto con il proprio ambiente (alias con l’altro), i propri stati di coscienza con le proprie conoscenze e le proprie possibilità d’azione.

Il counselor , facendo counseling, lavora col proprio cliente allo sviluppo della sua consapevolezza e, nel farlo, sviluppa anche la propria!

Lo fa grazie al proprio modo di stare in, e di gestire la, propria relazione di counseling, proponendo al cliente, alla bisogna, creative rielaborazioni delle esercitazioni di consapevolezza attraverso cui si è formato.

Lo “Yogging” è l’uso di tali esercitazioni di consapevolezza come mezzo per animare e dare corpo riconoscibile al “sentire”, al “pensare” e all’ “agire” del cliente, relativamente alle questioni su cui si sta lavorando (vedi il capitolo precedente:  3.1  La storia di Agnese.).

Animiamo e diamo corpo a tali “domìni” (quelli del sentire, del pensare e dell’agire) del cliente, per  fargli fare la spola tra gli stessi, “visitarli” e scoprirne le connessioni.

Confidiamo sul fatto che così riuscirà a scoprirne  contenuti e collegamenti.

Confidiamo sul fatto che questo lo aiuterà a distinguere quelli “buoni” (alias quelli in grado di produrre benessere) da quelli “cattivi” (alias quelli che producono malessere) e che questo lo aiuterà a scegliere opportunamente come intervenire sugli stessi per produrre i cambiamenti che sta ricercando.

Facciamo counseling facendo yogging insieme al cliente, confrontandolo sull’esperienza fatta, per meglio evidenziarne i contenuti e poterli quindi meglio riconoscere e riconoscerne le funzioni.

Facciamo tutto ciò da counselor, quindi stando in ascolto di noi stessi.

Ascoltiamo ciò che abbiamo accolto, osservandolo senza giudicare, restituendolo empaticamente al cliente, usando forme di comunicazione non violenta.

Questa, in sunto, è la filosofia del nostro fare counseling!

Chi si rivolge al counseling lo fa perché sta vivendo un qualche stato di crisi e/o di difficoltà personali, che non riesce a superare.

Chi si rivolge al counseling lo fa quando si ritrova in una qualche condizione personale-esistenziale che, in qualche modo, piccolo o grande, non gli piace, lo fa stare male e dalla quale vorrebbe uscire.

Chi va da un counselor lo fa con l’aspettativa di trovare una qualche soluzione ai propri problemi; soluzione che, da solo, non riesce a trovare, ma di cui presuppone l’esistenza.

Chi si rivolge al counseling scopre che il counselor non offre alcuna soluzione; perché il fare counseling non si appoggia su alcun bagaglio di soluzioni preordinate, adattabili alla bisogna.

Il counseling è una relazione che aiuta, chi ne fa esperienza, a scoprire nuovi, possibili, personali, seppur non ancora immaginabili, modi di stare e rapportarsi con i propri problemi, che ne faciliteranno la gestione e (perché no?!) potrebbero portare anche alla loro soluzione.

Si tratta di nuovi “modi” di vivere le proprie difficoltà basati su vari cambiamenti  d’atteggiamento personale.

Scopriamo i nostri possibili cambiamenti di atteggiamento personale, ed impariamo a metterli in atto, non certo perché ce lo prescriva il counselor; il cambiamento avviene perché ne facciamo bella e buona esperienza nella relazione stessa di counseling; che si rivela, così, per quello che è: un’importante opportunità di apprendimento di nuovi, più funzionali ed efficaci, modi di vivere i propri problemi.

Il “valore” di questa esperienza di apprendimento è una risultante:

  1. della cura, dell’attenzione, del riguardo che il counselor mette nello stare con noi,
  2. delle specifiche forme con cui il counselor gestisce la relazione di counseling stessa,
  3. dei lavori di consapevolezza che il counselor ci propone, in collegamento al proprio fare counseling con noi.

La cura, l’attenzione e il riguardo del counselor sono riferiti alla qualità del suo ascolto, della sua osservazione non giudicante, del suo modo empatico di stare e di comunicare con noi.

Ascolto, osservazione non giudicante, comunicazione empatica del counselor, favoriscono il fluire dei processi di consapevolezza (dello stesso counselor e del suo cliente)  la cui trama indirizza il, e a propria volta è influenzata dal, fluire dialogico-processuale tipico della relazione stessa di  counseling.

Di tutto ciò parliamo diffusamente in varie parti del presente manuale.

Delle esercitazioni da cui il counselor trae ispirazione per le proposte di “lavoro di consapevolezza” che rivolge ai propri clienti, ci occupiamo, invece e specificatamente, in questo capitolo.

Precisiamo che i lavori di consapevolezza, che presentiamo, riguardano le esercitazioni che il counselor esegue nel corso della propria Formazione IN Counseling; servono principalmente al counselor come lavoro di riconoscimento e di pulizia delle proprie dinamiche nevrotiche, come chiusura delle proprie gestalt ancora aperte, alias come soluzione dei propri turbamenti irrisolti e/o delle proprie difficoltà a stare con, e gestire, le emozioni, i sentimenti, le azioni che lo mettono in difficoltà.

È grazie a questi lavori di consapevolezza che il counselor ha maturato la propria capacità di accogliere e gestire quanto i propri clienti gli proporranno di difficile da accogliere e da gestire.

Ed è grazie agli apprendimenti derivati da tali lavori di consapevolezza (che nel corso della Formazione IN Counseling sono utilizzati non solo come lavoro su se stessi, ma anche, e molto, come leva per esercitare le abilità di counseling che si intendono formare) che, degli stessi e alla bisogna, il counselor saprà proporre, ai propri clienti, estratti e rielaborazioni varie, funzionali all’attivazione e agli sviluppi  dei processi di consapevolezza correnti nelle sue relazioni di counseling.

Da tali lavori di consapevolezza sono partito per approdare all’idea dello yogging come struttura portante del nostro fare counseling (vedi il capitolo precedente:  3.1 La storia di Agnese.).

Prima di presentarli, voglio ancora ribadire cosa qui si intende per consapevolezza.

Riprendendo quanto già argomentato in varie parti di questo manuale, innanzitutto dichiariamo che:

  1. consideriamo la consapevolezza quello stato individuale in cui una persona ha buona coscienza di quello che gli sta capitando, relativamente ai propri sentimenti, ai propri pensieri e ai propri comportamenti.

Ma questo non è ancora tutto. Perché:

  1. la consapevolezza è quello stato individuale in cui non solo ci rendiamo conto di quello che proviamo, pensiamo e facciamo, ma abbiamo buona coscienza di come ciò che proviamo (alias sentiamo), ciò che pensiamo e ciò che facciamo (alias agiamo) si leghino tra di loro, si influenzino reciprocamente, presiedano alla funzionalità dei nostri comportamenti, relativamente alla loro possibilità di permetterci di soddisfare l’intera architettura dei nostri bisogni (vedi capitolo sulla Gestalt).

C’è ancora qualcosa da precisare in materia di consapevolezza?! Direi di sì:

  1. la consapevolezza è quello stato esistenziale in cui non solo ci rendiamo conto dell’interazione del nostro sentire, pensare ed agire; ci rendiamo conto, anche, di come questo interagisca con il sentire, pensare ed agire altrui e di come il tutto si integri con le più generali condizioni del campo/ambiente in cui ci ritroviamo.

Come già introdotto nella parte iniziale del presente capitolo, ed espresso in questo stesso manuale, alla fine del capitolo sulla Gestalt, nel “decimo presupposto concettuale” [Il lavoro di consapevolezza (che nel Counseling è l’arte dello “Yogging”)”], facciamo “Yogging” ogni qual volta che, per meglio affrontare una nostra difficoltà del vivere, ci concentriamo sul nostro “Sentire” (ci mettiamo in ascolto e lo indaghiamo fino a riconoscerlo), ne analizziamo le corrispondenze con il nostro “Pensare” (in tutte le sue declinazioni) e con il nostro “Agire”, magari inventandoci delle esercitazioni (psico-motorie) mirate a mettere meglio in luce ciò che “Sentiamo-Pensiamo-Agiamo”.

Qui aggiungiamo che: facciamo counseling quando guidiamo il fare yogging del nostro cliente, rispecchiandone il farlo e confrontandolo sugli esiti, con modalità risultanti dal nostro particolare modo di stare in ascolto, di osservare senza giudicare e di comunicare empaticamente.

Alla base del valore dello yogging, e del nostro utilizzarlo nella relazione di counseling, risiede la coscienza-conoscenza del fatto che:

  1. nulla accade in ciascun “dominio” del “Sentire”, del “Pensare” e dell’ “Agire” che non abbia una qualche corrispondenza in ciascuno degli altri due;
  2. quando ci troviamo alle prese con difficoltà esistenziali che non riusciamo a superare (pur essendo loro superabili!), immancabilmente, nel dominio del nostro sentire sta accadendo qualcosa che non trova sane, funzionalmente adeguate, corrispondenze con ciò che pensiamo e facciamo.

In altre parole:

  1. non sappiamo dare buone risposte di pensiero e di comportamento a quello che sentiamo,
  2. ovvero quello che pensiamo e che facciamo producono sentimenti con i quali non sappiamo stare,
  3. ovvero abbiamo percezioni disfunzionali del nostro sentire, che strutturiamo proprio perché, improvvidamente, lo temiamo.

Di tale “coscienza-conoscenza”, viene dato ampio ragguaglio da Fritz Perls.

Su tale “coscienza-conoscenza” Fritz Perls poggia gran parte delle sue teorizzazioni, fino ad arrivare ad inventarsi la psicoterapia della Gestalt (vedi, in particolare, F.S. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, “Teoria e pratica della terapia della Gestalt”, Astrolabio, Roma, 1977).

Tale “coscienza-conoscenza” è valorizzata nel nostro far counseling, ogni qual volta proponiamo al nostro cliente un’esercitazione di consapevolezza, che, ad hoc, prevedendo per lui stesso l’attivazione dei tre “domìni” del “sentire” del “pensare” e dell’ “agire”, lo aiuti a rilevarne gli accadimenti e le reciproche influenze.

Più facciamo counseling e più ci accorgiamo di quanto alla base di ogni difficoltà esistenziale, potenzialmente risolvibile, risieda una qualche incapacità di stare con, e di gestire, i relativi stati emotivi.

Spesso la difficoltà è aumentata dall’adesione a credenze e valori culturali che l’individuo subisce senza riuscire a porvi alcun rimedio.

Ne conseguono atteggiamenti e comportamenti che alimentano l’impossibilità di risolvere le difficoltà in atto.

Alla base di ogni esercizio di consapevolezza c’è la sua possibilità di aiutare chi lo esegue a scoprire e riconoscere:

  1. i contenuti emotivi che caratterizzano i propri vissuti di difficoltà,
  2. i relativi contenuti mentali,
  3. gli atteggiamenti comportamentali che cristallizzano quei contenuti mentali ed emotivi.

Alla base di ogni esercizio di consapevolezza, che qui proporremo, c’è l’identico principio che contraddistingue il nostro fare counseling:

“Viene prima il Sentire”

Nella relazione di counseling, sarà:

  1. dalla condivisione di quel sentire, cioè dalla sua descrizione, dalla sua denominazione (per la quale il counselor offre il suo aiuto e la propria competenza di alfabetizzazione emotiva) e dalla sua individuazione (come “sentire” collegato a quali specifici vissuti?),
  2. dal confronto su quali bisogni, più o meno insoddisfatti, quel sentire esprime, nel “qui e ora” in cui viene riconosciuto,
  3. dal confronto su come passare all’azione per meglio soddisfare, concretamente, quei bisogni,

che il cliente maturerà le proprie esperienze di apprendimento su cosa cambiare e come, del proprio modo di pensare e di agire.

In forza della messa in atto delle esercitazioni che gli proponiamo e del modo in cui, nella relazione di counseling, le stesse vengono gestite e confrontate (in altre parole: in forza del nostro fare yogging con lui), il cliente svilupperà gli stati d’animo che, tipicamente, ci accompagnano quando scopriamo che qualcosa di nuovo (e per noi migliore) è possibile e ne intravvediamo la possibilità di riuscire a compierlo:

–              Ci sentiamo alleggeriti; in noi si ingenera un sentimento di speranza; cominciamo a vedere cosa possiamo fare e diventiamo fiduciosi di riuscire a superare le difficoltà che stiamo affrontando.

Questo stato d’animo, ci permette di sviluppare pensieri positivi e funzionali alla progettazione e alla esecuzione di piani d’azione in grado di meglio gestire, fino a farceli superare, gli stati di difficoltà e malessere che stiamo vivendo.

Questo è il nostro fare counseling: stare col cliente, organizzare e vivere con lui delle vere e proprie esperienze di crescita, basandoci sul nostro particolare modo di stare in relazione, e di gestirla, ricorrendo all’ausilio di sperimentazioni di varia natura, in grado di:

  1. dar corpo riconoscibile ai contenuti emotivi, di pensiero e di azione, che caratterizzano la soggettività di chi è coinvolto nelle situazioni di crisi che stiamo trattando;
  2. far vivere al nostro cliente vere e proprie esperienze di vita, per il cui tramite accedere a quelle scoperte e a quegli apprendimenti che lo metteranno in condizione di gestire i cambiamenti personali, per lui stesso necessari, per superare le difficoltà che sta vivendo e ritrovarsi nelle condizioni di benessere personale-esistenziale agognate.

Le “sperimentazioni di varia natura” che, facendo counseling, un counselor può proporre ai propri clienti, possono trovare, tutte, una base d’appoggio importante in almeno una, ma spesso in molte, delle esercitazioni/lavori di consapevolezza che qui di seguito proponiamo.

Sulle stesse insiste la nostra Formazione IN Counseling.

La principale fonte dalla quale le estrapoliamo è il già citato testo di F.S. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, “Teoria e pratica della terapia della Gestalt”, Astrolabio, Roma, 1977.

Molto è anche “preso”, sempre da Perls, in “L’io, la fame, l’aggressività”, Franco Angeli, Milano, 1995.

Tali esercitazioni sono state progettate con lo scopo di far vivere alle persone esperienze dalle quali poter trarre, soggettivamente, intuitivamente, direttamente, cioè non in forza di spiegazioni altrui, insegnamenti utili allo sviluppo e al miglioramento delle proprie capacità di risposta alle proprie difficoltà esistenziali, legate al proprio vivere e crescere come individui in costante contatto e relazione con altri individui, con un proprio ambiente socio-culturale, geografico, naturale, storicamente determinato.

Le Esercitazioni

Alcune premesse:

  1. Ogni esercitazione è una proposta di lavoro di consapevolezza che va eseguito concentrandosi, volitivamente, sull’esecuzione della stessa e prestando principale attenzione al proprio sentire.
  2. Dal riconoscimento di questo sentire origina lo sviluppo di consapevolezza cui puntiamo nel fare (o far fare) l’esercitazione stessa.
  3. Il riconoscimento di questo sentire è fortemente agevolato dal confronto con un altro soggetto, in specie un trainer e/o un counselor (cioè ciò che accade nel corso della Formazione IN Counseling), che, agendo il confronto esattamente nei termini relazionali in cui lo stesso viene gestito facendo counseling, rispecchia l’esercitazione ed i relativi esiti: stando in ascolto, osservando senza giudicare, dando i propri feedback con modalità empatiche e compassionevoli.
  4. Tale confronto relazionale diventa così una formidabile cassa di risonanza che facilita il riconoscimento del “sentire” di chi ha eseguito l’esercitazione, permettendo della stessa replicazioni progressivamente più efficaci.
  5. Le esercitazioni che qui vengono presentate sono esercitazioni proposte, principalmente, in contesti di gruppo.

Esercitazioni N° 1

Le nostre esperienze qualificano la nostra vita.

Da esse dipende il nostro stare bene o male.

Sono le esperienze che facciamo che determinano la qualità della nostra crescita, perché da queste apprendiamo come soddisfare i nostri bisogni, che crescono insieme a noi, ma sempre prima di noi.

Nuovi problemi ci si presentano, man mano che cresciamo; problemi che non sappiamo ancora come risolvere, ma che impariamo a farlo, più o meno bene, in forza delle esperienze che viviamo.

Il nostro fare esperienza è una risultante del “flusso unitario ‘corpo’, ‘mente’, ‘ambiente’”; resistendo a questo flusso, le esperienze che facciamo risulteranno menomate, e la qualità della nostra esistenza ne subirà, in qualche modo, le conseguenze.

Vogliamo quindi scoprire se e dove resistiamo a questo flusso, sperimentandolo in esercitazioni in grado di far parlare i nostri sensi, le nostre emozioni, i nostri sentimenti; attivare la nostra mente e le nostre espressioni, verbali e non.

Scoprire le nostre resistenze, e come le agiamo, sarà un buon viatico per individuare “a cosa” resistiamo, quanto ci possa servire continuare a farlo e, nel caso, come agire per smettere di farlo.

Dopo aver spiegato cosa si intende per consapevolezza, si richiede di formulare, a voce bassa e fra sé e sé, per qualche minuto, delle frasi con le quali si asserisce ciò di cui, in quello stesso specifico momento si è consapevoli. Frasi organizzate con la formula: “qui e ora in questo preciso momento sono consapevole di ….”

Viene inoltre richiesto di concentrarsi su come ci si sente nel declamare la propria asserzione di consapevolezza e di riflettere su cosa questo sentire potrebbe rimandare (in altre parole, si richiede di fare la spola tra ciò che si sente e ciò che si pensa).

Esempi di asserzione di consapevolezza:

  • “qui e ora in questo preciso momento sono consapevole di avere freddo”
  • “qui e ora in questo preciso momento sono consapevole di stare in un gruppo di cui mi fido (oppure no) e che questo mi aiuta a fare quello che sto facendo”
  • “qui e ora in questo preciso momento sono consapevole di non sentire niente e di quanto questa cosa mi infastidisca” (al che si verrebbe immediatamente confrontati sul fatto che il fastidio è un sentimento, che non si sta riconoscendo come tale)
  • “qui e ora in questo preciso momento sono consapevole di star facendo una cosa che mi sembra stupida” (e qui si sarebbe confrontati sull’ingerenza del giudicare come ostacolo al sentire e allo sviluppo di ogni stato di consapevolezza)
  • ecc.

L’esercitazione può anche essere fatta a coppie, nel senso che, invece di declamare fra sé e sé, si dichiara a voce alta ad un compagno la propria asserzione di consapevolezza.

Segue la condivisione di gruppo dell’esperienze, formulate in termini di feedback (si dichiara ciò che si è sentito e, laddove se ne ha coscienza, il senso che questo sentire rappresenta per chi lo ha sperimentato); cui si associa il confronto di gruppo, guidato dal trainer, sul valore dei feedback stessi.

La stessa esercitazione può essere ripetuta a casa:

  • Recitiamo, a mo’ di mantra, i contenuti della nostra consapevolezza: “Adesso sono consapevole di essere sdraiato su di un divano. Ora sono consapevole di voler fare l’esperimento della consapevolezza. Ora sono consapevole di esitare, non sapendo da dove iniziare. Ora sono consapevole della radio che suona nell’altra stanza. Questo mi ricorda… no, sono consapevole che volevo ascoltare quel programma. Sono consapevole del fatto che stavo fantasticando e ora ho smesso. Ora mi sento nuovamente sperduto. Mi ritorna in mente la raccomandazione di mantenermi nell’ambito di cose semplici e di superficie. Ora sono consapevole di stare seduto con le gambe accavallate. Mi rendo conto di provare un forte mal di schiena. Ora sono consapevole di voler cambiare posizione, adesso lo sto facendo, ecc…”

Insomma, prestiamo attenzione a ciò che sentiamo, pensiamo, facciamo, e lo dichiariamo a voce alta.

Esercitazioni N° 2 (a proposito, in particolare, dell’introiezione)

Una delle attitudini che caratterizzano la vita di noi esseri umani è l’abitudine.

A questa si aggiunge la tendenza ad automatizzare, rendendoli ripetitivi, i nostri comportamenti e le nostre scelte.

Per alcuni aspetti, tale tendenza è benefica.

Agire in modo automatico e abitudinario ci permette di velocizzare la gran parte di ciò che facciamo.

Possiamo fare più cose contemporaneamente (ad esempio: guidare  e ripassare mentalmente una lezione o chiacchierare con chi ci sta vicino), perché avendole rese automatiche non abbiamo bisogno di controllarne l’esecuzione.

Ma come sempre accade, non c’è mai un “pro” senza un “contro”.

La nostra tendenza ad agire abitudinariamente, automaticamente, è l’attitudine su cui si sviluppano tutti i nostri atteggiamenti e comportamenti nevrotici; quelli in forza dei quali non scegliamo più, di volta in volta, secondo criteri di contingente, buona e relativa, opportunità, ma riproponiamo indifferentemente sempre lo stesso schema comportamentale, anche quando non rappresenta un’adeguata risposta agli accadimenti in corso.

Tali dinamiche comportamentali sono un riflesso di atteggiamenti mentali ed emotivi, i cui automatismi sono ancor più resi rigidi e nevroticamente ripetitivi dagli influssi culturali-educativi, fortemente caratterizzati sul piano normativo, che solitamente subiamo; influssi che concorrono immancabilmente alla formazione dei nostri “introietti” (vedi le interruzioni di contatto, nel capitolo sulla Gestalt, in questo stesso manuale) e ai nostri corrispondenti deficit di pensiero critico (e di spettro emotivo), declinati nella nostra inveterata abitudine compulsiva di giudicare, tutto, tutti, in continuazione.

La sclerotizzazione di pensieri, giudizi, atteggiamenti comportamentali, spesso, corrisponde a varie “fissazioni” emotivo-sentimentali, che ci portano ad indossare, ed impersonificare, “maschere”, scelte in rappresentanza di ciò che, in qualche modo, riteniamo di “dover essere” (la maschera dello spavaldo, della vittima o del carnefice, del “so tutto/faccio tutto io”, del “macho”, del “cavalier servente”, dell’onnipresente, di “chi non ce la fa mai” o di chi “ce la fa sempre”, del salvatore, ecc. ecc.).

Ma ci possiamo ritrovare in contesti esistenziali, legati a momenti/situazioni di cambiamento, piccoli o grandi della nostra vita, in cui a stare con i nostri automatismi (emotivi, mentali e comportamentali), e con le nostre “maschere”, non ce la caviamo!

Diventa allora indispensabile saperne gestire il cambiamento.

Il lavoro di consapevolezza è uno strumento “principe” per tale bisogna.

Le seguenti “Esercitazioni N° 2” vengono quindi proposte per:

  1. sviluppare la capacità di vedere le cose attraverso ottiche diverse, anche contrarie, alla nostra;
  2. riconoscere e risolvere i nostri introietti;
  3. sviluppare il pensiero critico ed allentare le influenze negative derivanti dai nostri pregiudizi e dall’abitudine a giudicare, facendo esperienza della nostra possibilità di pensare e valutare autonomamente, ed in prima persona, ciò con cui siamo alle prese;
  4. riconoscere i nostri “mascheramenti”;
  5. scoprire la relatività delle cose;
  6. far esperienza della possibilità del cambiamento di stato d’animo; la possibilità di non essere sopraffatti dalle nostre emozioni e dalle indefinte-indefinibili immaginazioni catastrofiche cui sono collegate.

Ed ecco le Esercitazioni:

  1. Ai partecipanti al gruppo vengono forniti oggetti di uso quotidiano (esempio: posate, penne, matite colorate, fazzoletti, palline e palloni, libri, tappetini, sedie; se si è all’aperto, anche qualcosa di più “Impegnativo”, che ne so? una bicicletta, una carriola, una vanga, ecc. ecc.) e gli si propone di pensare a come usarli, e di usarli, “in altri modi”, diversi da quelli per cui sono ordinariamente costituiti. Ogni partecipante deve, anche, immaginare un oggetto che non sia tra quelli forniti ed eseguire immaginariamente lo stesso esercizio.
  2. Viene dato mandato di immaginarsi in ruoli opposti a quelli abitualmente ricoperti (esempio: figlio/genitore, capo/subordinato, maschio/femmina, vittima/carnefice) e di inscenare un discorso fatto al se stesso, nel suo vecchio, abituale, ruolo.
  3. Viene dato mandato di guardare alle cose, e alle persone, che ci circondano, presenti nello spazio in cui ci ritroviamo, come se le loro funzioni, i loro significati fossero l’antitesi, o comunque qualcosa di diverso, di ciò che normalmente rappresentano per noi (esempio: un quadro alla parete che per noi è un “complemento d’arredo” cosa potrebbe essere per un altro? Magari il ricordo dell’amico che glielo ha regalato?).
  4. Viene dato mandato di inventariare i propri giudizi su tutto ciò che, nel qui e ora in cui ci ritroviamo, ha per noi un particolare valore, ed immaginare, dapprima come sarebbe la nostra esistenza se avessimo giudizi opposti , successivamente se non avessimo giudizio alcuno.
  5. Viene dato mandato di immaginarsi (e la stessa cosa può essere organizzata teatralmente) in una posizione terza, neutra, senza alcun proprio giudizio, tra due contendenti che vogliono vedersi riconosciuta la giustezza del proprio giudizio su di una qualunque cosa, inventata sul momento; come ci sentiamo in quella zona di indifferenza? Come ci sentiamo a guardare con interesse ad entrambe le posizioni, senza schierarci né per l’uno, né per l’altro?
  6. Vengono proposte movimentazioni a corpo libero; successivamente di rieseguirle a “ritroso”; stessa cosa andando con l’immaginazione ad accadimenti reali o di fantasia.
  7. Viene dato mandato di invertire l’utilizzo degli oggetti a disposizione e/o delle proprie facoltà (sedere sul tavolo, scrivere sulla sedia; chiudere gli occhi e farsi guardare, invece di guardare; farsi toccare, invece di toccare), con l’intenzione di assaporarne il piacere e giudicare possibile e naturale la cosa.
  8. Viene dato mandato di mettere a fuoco qualcosa/qualcuno che, ultimamente, “abbiamo fatto, o è diventato, nostro”; successivamente di individuare cosa ci è “costato” e/o cosa abbiamo, corrispondentemente, perso.
  9. Viene dato mandato di pensare a “cosa non siamo riusciti ad ottenere” e a “cosa abbiamo, per questo, mantenuto”. Come stiamo!?
  10. Viene dato mandato di lasciare che la nostra attenzione si sposti da un oggetto all’altro, da una persona all’altra (presente o immaginata), prestando attenzione sia a ciò che poniamo in figura sia a ciò che gli fa da sfondo; per ciascun elemento (e/o parti dell’elemento) che ci colpisce dichiariamo la nostra emozione associata (a partire da un semplice: “questo mi piace”, “quest’altro no”, fino alla verbalizzazione di sentimenti più complessi).
  11. Prestate attenzione alle vostre abitudini: il modo di vestirvi, di pulirvi i denti, di chiudere o aprire una porta, di fare un dolce. Se non sono così efficaci o una qualche alternativa produce lo stesso effetto ma ha il vantaggio di produrre varietà, tentate il cambiamento? Cosa succede? Provate piacere o che? Incontrate delle resistenze? Cambiare una cosa “guasta” tutto il resto della vostra routine? Cosa vi succede quando qualcuno fa qualcosa in un modo diverso da quello che voi siete abituati a fare? Vi infastidite? Vi indignate? Vi irritate? O vi incuriosite?
  12. Visualizzate una vostra abitudine e immediatamente visualizzate una o più modalità alternative, potete sperimentarle? Se no, cosa ve lo impedisce?
  13. Considerate tutte le caratteristiche che vi riconoscete (come parlate, vestite, vi comportate, ecc.). Sapreste dirvi da chi le avete acquistate? Da “amici” o da “nemici”. Se apprezzate una vostra caratteristica, potete sentirvi grati verso chi vi ha “ispirato”?

Esercitazioni N° 3

Non è possibile l’assimilazione di un qualcosa (una lezione, un’esperienza, un sapere, un cibo) che non sia preceduta da una sua destrutturazione/distruzione; che parte dalla disaggregazione degli elementi che la compongono, per poterli selezionare e tenere quelli che ci servono e, in vario modo, respingere, rigettare, espellere quello che non ci serve o che ci è nocivo; dopodiché, rielaboriamo quello che abbiamo tenuto, che diventa, in vario modo, qualcosa di nuovo per noi, linfa vitale della nostra crescita.

Quando questo non avviene, l’esperienza viene mandata giù per intero (introiettata), non diventa nostra e non può nutrirci.

Le seguenti esercitazioni vogliono far fare esperienza di questo.

  1. Osservate un oggetto, descrivetene quante più qualità e proprietà potete, la forma, i suoi componenti, la materia che lo costituisce, le sue funzioni, proprie, estemporanee, immaginarie. E mentre siete intenti ad astrarre tutto ciò da questo unico, specifico e particolare oggetto che state osservando, prestate attenzione a come tutte le vostre astrazioni si unifichino nella struttura materiale dell’oggetto che state osservando.
  2. Osservate un quadro che vi piace, andate alla ricerca dei suoi, singoli, elementi costitutivi: le linee, i colori, gli spazi vuoti e pieni, le sfumature, i particolari, i singoli piani tridimensionali, lo spessore delle pennellate. In ultimo, guardatelo nel suo insieme, guardate la “vicenda” che rappresenta e scoprite le differenze tra lo sguardo d’insieme (che non distingue e ci fissa sul piano delle generalizzazioni) e l’osservazione minuziosa (che distingue ed arricchisce).
  3. Fate lo stesso con un brano musicale (le singole note, gli strumenti, le melodie, i toni, ecc.).
  4. Stesso esperimento di astrazione dettagliata dei propri sensi (olfatto, gusto, tatto) e delle proprie emozioni nel contattare un oggetto.
  5. Prestate attenzione alla voce di qualcuno. Che tipo di suono ha? Monotono? Vario? Squillante? Stridulo? Armonioso? Di timbro troppo basso? Una pronuncia indistinta? Forte? Scorrevole? Che tipo di reazione emotiva provate di fronte ai vari aspetti di questa voce? Chiedetevi, inoltre, quali emozioni fanno da sfondo in chi quella voce sta utilizzando? Quanto sono coerenti con le caratteristiche di quella voce? Quali finalità, consapevoli o meno in chi la utilizza, perseguono le caratteristiche di quella voce?
  6. Prestate attenzione alla vostra voce.
  7. Rendetevi conto delle vostre abitudini alimentari, prestate attenzione a come mangiate e a cosa fate mentre mangiate, poi esercitatevi a mangiare masticando fino alla completa liquefazione del cibo, introducendo il cibo in bocca solo dopo aver deglutito il precedente boccone.

Esercitazioni N° 4

Qual è il rapporto tra passato, presente e futuro nella nostra esistenza?

Al di là di ogni analisi logica, psicologica, storico-sociologica; al di là di ogni considerazione più o meno retorica, più o meno contaminata da influenze spirituali o “paratali”, che esperienza possiamo fare di questo rapporto che ci aiuti a migliorarne l’incidenza nella nostra vita quotidiana?

In questa direzione sono pensate le seguenti esercitazioni.

  1. Scegliete un ricordo non troppo lontano o troppo difficile. Ad esempio, rivisitate con la fantasia la casa di un amico, o della vostra infanzia. Chiudete gli occhi. Cosa vedete? La porta? qualcuno che la apre? Dei mobili? Altre persone? Non cercate di ricostruire mentalmente quello che avrebbe dovuto esserci; state con la memoria nel luogo ricordato e osservate ciò che vedete. Fate lo stesso esercizio con l’udito e con gli altri sensi. Evocate non solo le cose che avete visto, anche ciò che avete udito, odorato, toccato, sentito nei vostri movimenti. Qual era il tono emotivo di queste esperienze?
  2. Inventariate, mentalmente, le vostre esperienze più importanti, quelle ‘interiori’ come quelle ‘esteriori’, quelle astratte e quelle concrete, quelle del passato e quelle che agognate come future , quelle che considerate di ‘dover’ fare e quelle che ‘desiderate’, quelle che semplicemente ‘sono state’, quelle intraprese ‘deliberatamente’ e quelle vissute ‘spontaneamente’. Considerate di starle tutte, una la volta, vivendole adesso. Considerate coscientemente il fatto che la vostra consapevolezza esiste ‘qui e ora’: quello che sentite, che pensate e che state facendo è un qualcosa che accade adesso, esattamente dove siete. Riuscite a rendervi conto del fatto che siete voi a vivere l’esperienza, siete voi che agite, osservate, resistete, soffrite?

Nel corso di ogni esperienza, senza eccezione alcuna, ripetetevi: “Ora sono consapevole che…”

Esercitazione N° 5

Riconoscerci la responsabilità di quello che facciamo è la condizione necessaria per arrivare a farlo meglio!

Innanzitutto, possiamo assumerci la responsabilità dei nostri pensieri, dismettendo l’abitudine di pensare che i pensieri arrivino (da chi?! per forza autonoma?!) e si impossessino di noi, della nostra mente,  senza che noi ci si possa opporre.

Possiamo concentrarci sul fatto che siamo noi che pensiamo o che, almeno, abbiamo la possibilità di farlo; abbiamo la possibilità di scegliere cosa pensare, quando, quanto e come farlo.

È questo un esercizio fondamentale, per l’assunzione delle proprie responsabilità.

Esercitazione:

Riconoscendovi ed identificandovi in tutto ciò di cui siete consapevoli, differenziate nel seguente modo: concentrate l’attenzione su eventi esterni (figure, suoni, odori), senza reprimere le vostre propriocezioni, in seguito rivolgetevi ad esse (immaginazioni, sensazioni fisiche, tensioni muscolari, emozioni, pensieri), individuatele, osservatele, ascoltatele. Fate lo stesso con le percezioni esterne. Scoprite i collegamenti tra le une e le altre.

Esercitazioni N° 6

Esperimentare la consapevolezza corporea.

Anche se è molto difficile e suscita resistenze ed angoscia, è molto importante farlo.

Sulla consapevolezza corporea A. Lowen base le proprie teorie e, sul relativo “azionamento” di singole parti del corpo, poggia le proprie tecniche di “dissoluzione della corazza motoria” (tensioni muscolari alle quali sono ancorate le nostre resistenze).

Ogni possibile cura delle cosiddette malattie psicosomatiche, inoltre, si fonda su studi inerenti la consapevolezza corporea.

Per noi counselor, è fondamentale riconoscere quanto il corpo sia la “casa” della consapevolezza.

Nel corpo alberga il sentire, su cui si basa, e che orienta, ogni nostro processo di consapevolezza.

Per questo siamo particolarmente interessati al corpo.

Nell’eseguire le prossime proposte di esercitazione, cercando di essere quanto più possibile bendisposti e curiosi,  scopriremo quanto sarà affascinante e stimolante tutto ciò che faremo di noi stessi. Quindi:

  1. Concentriamoci sulle nostre sensazioni corporee nella loro totalità. Soffermiamo lentamente la nostra attenzione su ogni parte di noi stessi. Che cosa riusciamo a percepire di noi stessi? In che misura e con quanta chiarezza siamo coscienti del nostro corpo, cioè di noi stessi? Ci accorgiamo di tutti i piccoli dolori, dei fastidi che abitualmente neanche prendiamo in considerazione? Avvertiamo delle tensioni muscolari? Se ne prendiamo atto, lasciamo che persistano senza cercare di rilassarle. Sforziamoci di definirne i confini.
  2. Adesso passiamo all’ascolto delle nostre sensazioni epidermiche. Riusciamo a sentirle lungo tutto il nostro corpo? Riusciamo a stabilire la posizione della testa rispetto al dorso? Sentiamo i nostri genitali e ci rendiamo conto di dove sono rispetto al corpo? E il petto? E gli arti?
  3. Facciamo attenzione a non supplire con l’immaginazione alla mancanza di propriocezione. Per questa ragione, dopo esserci immaginati la posizione di un pezzo del nostro corpo, andiamo a ricercarvi le sensazioni che lì proviamo; facciamoci aiutare dal tocco di qualcun altro.
  4. Verbalizziamo l’esperienza nella maniera seguente:“ora sono consapevole di sentire una costrizione alla gola”; ora cerco di individuare il rapporto tra la gola ed il petto; ora sono consapevole della mia nausea; ecc.”
  5. Camminiamo, discorriamo o sediamoci, ma stiamo in ascolto delle nostre percezioni, senza intervenire mai su di esse.

Esercitazioni N° 7

Quello che facciamo del e col nostro corpo, anche se inconsapevolmente, è un riflesso di un nostro bisogno, di un nostro interesse, di una nostra intenzione, di una nostra emozione, di un nostro pensiero.

Nel campo “organismo-ambiente”, ciò che la nostra percezione (nella sua complessità etero e propriocettiva) “incontra” non è mai neutrale, è sempre collegato alla condizione che stiamo vivendo, relativamente allo stato dei nostri bisogni e al modo in cui con questi ci rapportiamo.

Chiamiamo “emozione” il “valore sentimentale” che tale situazione assume per noi.

Considerando la quantità di istanze che muovono i nostri bisogni e la possibilità che queste possano “impersonificarsi”  in differenti “parti/personalità” di noi stessi (quella che comanda VS quella che subisce, quella paurosa VS quella coraggiosa; quella attiva VS quella passiva, quella rimproverante VS quella comprensiva/accomodante, ecc. ecc., nell’infinito gioco degli opposti), individuare le specifiche parti fisiche del nostro corpo ed il  modo in cui si collegano, può farci fare interessanti scoperte sul gioco di queste “parti”.

Esercitazione:

Mentre siete seduti o sdraiati comodamente, consapevoli delle vostre propriocezioni, indagate sui loro collegamenti. Osservate come frequentemente trattenete il respiro, cosa potete collegare a questo fatto? Quali sensazioni, emozioni, pensieri collegate alle vostre apnee?

Vogliamo scoprire i “cattivi funzionamenti” per trovare buone motivazioni al cambiamento.

Concentrandoci sulle nostre tensioni possiamo scoprirne l’intimo significato ed eliminarle definitivamente.

Osservate le vostre reazioni ad un film o ad uno spettacolo teatrale. Con chi vi identificate? Con chi trovate difficile farlo?

Rivolgete la vostra attenzione alle persone verso cui vi sentite in colpa e/o provate risentimento.

Individuate cosa muove questo vostro sentire, quali comportamenti sono causa dei vostri sentimenti.

La stessa cosa, gli stessi comportamenti eseguiti da altri produrrebbero in voi lo stesso stato d’animo?!

Ora, ritornate su chi nei cui confronti provate un senso di colpa e/o risentimento.

Nei rapporti che avete con queste persone, quanto e cosa date per scontato che l’altro potrebbe non considerare tale!?

Vi interessa cambiare questo stato delle cose?

 Esercitazioni N° 8

Alla ricerca delle associazioni emozione-sentimento-azione-sensazione, mobilitiamo le nostre strutture di azione corporea, esempi:

1) Stringete la mascella, serrate i pugni, ansimate. Dovrebbe ingenerarsi in voi un principio di rabbia!

Associate a tale sentimento il pensiero di una persona o di una situazione per voi particolarmente frustrante. L’emozione di rabbia dovrebbe crescere e diventare forte e chiara.

Riconoscere le azioni associate alla rabbia, ci aiuta a riconoscerla.

Riconoscere le nostre emozioni sostiene la nostra consapevolezza circa lo stato delle cose da affrontare nel nostro ambiente, aiutandoci a riconoscere ciò che l’ambiente ci offre per farlo.

2) Solo riconoscendo ed accettando il nostro desiderio nei confronti di qualcuno/qualcosa saremo in grado di orientarci verso la miglior azione per soddisfarlo/gestirlo.

3) Solo accettando e riconoscendo il nostro dolore, riusciremo a piangere e ad allontanarci/separarci da quanto/chi ci ha fatto soffrire (per quanto caro ci sia stato), ovvero a trovare il miglior modo di gestirlo..

4) Sdraiatevi e cercate di percepire il vostro volto. Riuscite a sentire la vostra bocca? La fronte? Le mascelle? Chiedetevi: qual è l’espressione del mio viso? Non cercate di cambiarla, concentratevi su di essa. Vi rendete conto di quanto sia in continuo mutamento? Vi rendete conto della diversità di umori che si associano alle vostre espressioni?

5) L’inespressività, la mono espressività, il controllo dei muscoli della faccia, che rapporto hanno con la “rappresentazione di noi stessi”?

6) Che rapporto c’è tra ciò che facciamo vedere di noi e ciò che realmente siamo/proviamo!?

Il tutto ha una relazione stretta col metodo di formazione attoriale “Stanislavsky”, che collega la capacità di recitazione con l’esperienza vissuta di ciò che si intende recitare/rappresentare; per tale motivo insiste sulla coltivazione della memoria sensoriale ed affettiva.

Esercitazioni N° 9

Per lo sviluppo della consapevolezza emotiva:

In una galleria d’arte o su uno o più rappresentazioni fotografiche. Date un rapido sguardo a ciascun dipinto/foto. Che emozione, la visione di ciascun dipinto, vi suscita?

Appena riconosciuta l’emozione, passate al dipinto successivo (senza fermarvi ad analizzare l’emozione ed i suoi collegamenti).

Prestate attenzione alla variegata gamma di emozioni che potete provare.

Se questo non avviene, confrontatevi su quanto avviene negli altri, che eseguono la stessa esercitazione e riservatevi di ripetere in un tempo futuro l’esperimento.

Concentratevi su tutte quelle esperienze che maggiormente vi hanno provocato sofferenza, vergogna, tristezza, terrore/paura (i nostri sospesi, le nostre faccende ‘non risolte’). Cercate di riviverle nella fantasia, recuperando il maggior numero di particolari.

Riuscite e riviverne le emozioni?

In caso contrario, potete rendervi conto di ciò che fate per bloccarle?

Vi anestetizzate? Svalutate/disprezzate gli accadimenti? Scotomizzate?

Esercitazioni N° 10

Per il riconoscimento dei nostri pensieri e della loro valenza giudicante:

Registrate la vostra voce ed ascoltatela.

Ascoltatevi mentre parlate.

Recitate a voce alta una poesia e intanto ascoltatevi.

Fate lo stesso “mentalmente”.

Leggete un qualunque testo e ascoltatevi leggerlo.

Fatelo sia a voce alta sia mentalmente.

Ascoltate quello che pensate fra voi e voi, vi accorgete di quanto verbalizzate (sub-vocalmente) i vostri pensieri?

Ascoltate le variazione di questa vostra voce. Come vi sembra? (inquieta, disperata, arringante, infantile, ecc.) Che rapporto vi sembra abbia con il modo in cui vi sentite?

Riuscite ad armonizzare il vostro sentire con il vostro parlare?

Esercitazioni N° 11

Far tacere la voce del giudizio:

Prestate attenzione alla vostra voce “sub-vocale” (il vostro parlottio interiore), fino a riconoscerla, osservatela, ascoltandovi; prestate attenzione a come vi sentite, principalmente nella zona “basso ventre-pancia-cuore-gola-testa”.

Se riuscirete a mantenere questa “posizione” di attenzione alla vostra voce subvocale e  ascolto, potreste arrivare a fare esperienza del silenzio interiore.

Accontentatevi, inizialmente, di riuscire, anche solo momentaneamente, ad interrompere la verbalizzazione interna e a percepire primi attimi di silenzio interno.

Se ci riuscite, cercate di intervallare i momenti di silenzio e quelli di verbalizzazione, associandovi il respiro (tacete inspirando, parlate espirando).

Sussurrate.

Esercitazioni N°12

Il respiro come filo rosso della consapevolezza.

Respirare è una funzione fisiologica “semi-automatica”. Possiamo respirare senza accorgerci di farlo, oppure intervenire, coscientemente, sulle sue modalità.

Il nostro respirare può bloccarsi, variare di ritmo, affannarsi, anche come automatismo incontrollato, come correlato fisiologico di qualche particolare emozione o azione.

Il respirare è una funzione fisiologicamente collegata al bisogno di ossigeno del nostro organismo, che varia a seconda di quello che stiamo facendo/vivendo e dell’opportunità di procacciarcelo (nel senso che ci sono casi in cui tratteniamo volontariamente il respiro, in corrispondenza di situazioni che lo richiedono).

Se, tra quello che stiamo facendo e quello che stiamo provando, vi è armonia, il ritmo del respiro asseconda le necessità fisiologiche in essere.

Quando, tra gli accadimenti in corso e quello che proviamo (sentimenti, emozioni, sensazioni), e facciamo, non vi è armonia, il primo corto circuito fisiologico può avvenire, senza dubbio, nel nostro respirare.

Questo accade, ad esempio, nei nostri stati d’ansia, tutti invariabilmente caratterizzati da qualche forma di respiro “disturbato” (affannato, a singhiozzo, ripetutamente bloccato e trattenuto).

La concentrazione sul respiro è, probabilmente, la forma più elementare di lavoro di consapevolezza, le cui esercitazioni di base possono essere:

  1. Partire dall’osservazione della propria respirazione, per accorgersi del modo in cui respiriamo.
  2. Riusciamo a differenziare le diverse parti del processo respiratorio?
  3. Sentiamo l’aria entrare nel naso, procedere giù per la gola e la trachea, finire nei bronchi?
  4. Sentiamo le costole allargarsi e il distendersi del dorso?
  5. Ci rendiamo conto della maggiore porzione di spazio che occupiamo quando inspiriamo profondamente?
  6. Sentiamo l’espirazione come il semplice ritorno elastico e senza sforzi delle costole e dei muscoli alla condizione di riposo che ha preceduto l’inspirazione?
  7. Prestare attenzione alla respirazione altrui: il ritmo, l’ampiezza, l’irregolarità, le apnee, lo sbadigliare, l’ansimare, il sospirare, il tossire, i soffocamenti, il fiutare, lo sternutire, il respirare rumorosamente e così via.

Esercitazioni N° 13 (a proposito, in particolare, della retroflessione)

La consapevolezza è un processo che integra la relazione individuo-ambiente.

Disfunzioni di contatto, in tale relazione, possono portare ad atteggiamenti retroflessivi che penalizzano la soddisfazione dei nostri bisogni.

Questo accade quando, invece di prendere dall’ambiente ciò che ci serve, lo prendiamo da noi stessi, oppure quando tratteniamo in noi quello che faremmo meglio a rivolgere all’esterno.

Queste le esercitazioni, che possiamo mettere in atto per riequilibrare tali interruzioni di contatto:

  1. Cercate di riconoscere con chiarezza il fatto che quando “chiedete a voi stessi qualcosa”, si tratta di una domanda retroflessiva (se conosceste la risposta, non vi fareste la domanda!). Chi potrebbe conoscere la risposta? (È a questi che dovete rivolgerla!) Cosa vi trattiene dal farlo? Qual è il motivo che vi spinge a chiedere a voi stessi quello che dovreste chiedere ad altri? A chi vi state sostituendo?
  2. Prendete ora in considerazione i vostri autorimproveri. Non troverete un vero senso di colpa, ma una sua finzione! Individuate chi intendete realmente rimproverare. In chi volete far insorgere quel senso di colpa che fingete?
  3. Talvolta nelle retroflessioni l’io si identifica sia con la parte attiva, quella che retroflette, sia con la parte passiva, quella che subisce la retroflessione. Questo vale in particolare nell’autocommiserazione e nell’autopunizione. Prendete ad esempio i casi della vostra vita in cui vi siete auto commiserati e/o autopuniti. Per chi volevate provare pietà? Da chi volevate essere compatiti? Chi volevate punire? Da chi volevate essere puniti?
  4. Pensate ad una situazione che vi imponete e capovolgetela: Come costringete gli altri ad eseguire il compito per voi? Manipolate l’ambiente con parole magiche? Siete prepotenti, comandate, comprate, minacciate premiate?
  5. Qual è la vostra reazione alle costrizioni cui siete fatti oggetto? Le respingete, facendovele rimbalzare? Le accogliete verbalmente (dite di sì), ma poi non le eseguite? Attivate il vostro senso di colpa e le subite con autodisprezzo e disperazione?

Fino a quando non “scarichiamo” l’aggressività che ci auto rivolgiamo, non potremo attivare stati mentali e condizioni emotive diverse.

Un’altra retroflessione importantissima è il disprezzo di sé, nonché ogni senso di inferiorità. L’abitudine di valutarsi come “scarto” da un modello prestabilito può essere capovolta/rivolta agli altri; accettarlo nei confronti altrui ci aiuta ad accettarlo nei propri confronti, e viceversa!

Cosa dubitate di voi stessi? Di cosa non vi fidate? In cosa vi disapprovate?

Potete invertire questi atteggiamenti?

Chi è la persona su cui avete dei dubbi?

Chi suscita in voi sospetti?

Chi volete deridere e a chi volete far abbassare la cresta?

Potete sentire la vostra apparente inferiorità come arroganza celata?

Potete vedere nella vostra modestia il desiderio retroflesso di annientare “Tal dei tali”?

Altra retroflessione è l’introspezione.

Qual è lo scopo della vostra introspezione?

State cercando un segreto? Scoprendo un ricordo? Sperando/temendo una sorpresa?

Vi osservate con l’occhio acuto di un genitore severo per accertare che non vi cacciate nei guai?

State cercando qualcosa che si adatterà ad una teoria precostituita?

O cercate questi atteggiamenti negli altri?

Esiste qualcuno di cui vorreste esplorarne le parti nascoste? Qualcuno che sottoponete al vostro sguardo severo e che giudicate ne abbia bisogno?

Prestate attenzione al come funzionate, a come funziona il vostro io:

Come procedete alla vostra introspezione?

Scavate? Siete voi il poliziotto brutale che batte alla vostra porta?

Siete timidi e furtivi con voi stessi?

Vi guardate senza realmente vedervi?

Evocate eventi che realizzino le vostre aspettative?

Li falsificate esagerandoli?

O diminuite la loro importanza?

Riconoscete solo ciò che vi fa comodo?

Il caso estremo dell’introspezione è l’ipocondria: la ricerca dei sintomi di malattia.

Capovolgete la cosa e cercate dei sintomi negli altri? (Potreste essere un medico o un’infermiera inibiti!)

Qual è lo scopo della vostra ricerca?

Potrebbe avere a che fare con un bisogno sessuale?

Vi è stato mai detto che la masturbazione lascia dei cerchi intorno agli occhi?

Avete cercato conferma su di voi e sugli altri?

Praticate l’introspezione sul vostro corpo alla ricerca dei segni di punizione dei vostri peccati?

La retroflessione può essere sia un’azione rivolta contro se stessi, sia una controazione (muscolare) volta a trattenere un’azione rivolta verso l’ambiente/altro.

Un cliente può piangere ogni qualvolta vorrebbe esprimere un rimprovero o un attacco; non osando farlo, retroflette l’attacco, piangendo, come a dire: <<vedi come sono innocuo e maltrattato?!>>

Lo scopo originario, evidentemente, era quello di far piangere qualcun altro (magari il counselor stesso).

Il pianto e il risentimento perdureranno fino a quando l’aggressività non verrà riorganizzata e rivolta all’esterno.

Altro sintomo di un’azione retroflessa è il mal di testa, che – come ogni altro sintomo psicosomatico- è prodotto dalla tensione muscolare volta a soffocare un impulso insorgente.

Impegnarsi a rilassarsi è controproducente (aggiungo sforzo a sforzo), meglio sarebbe sdraiarsi, senza rilassarvi forzatamente, e mettersi in ascolto dell’intero corpo.

Notate i vostri dolori?

Mal di testa, alle spalle, crampo dello scrittore, contrazione dello stomaco, vaginismo, ecc.

Prestate attenzione alle vostre tensioni, senza intervenire su di esse (intorno agli occhi, alla bocca, nel collo…).

Lasciate vagare la vostra attenzione dai piedi alla testa. Se siete scomodi aggiustatevi.

Muovetevi lentamente, lasciate che il senso di voi stessi si sviluppi gradatamente.

Vi accorgete della tendenza del vostro organismo a regolarsi, alla ricerca di una posizione migliore?

Non ingannatevi credendo di sentire il vostro corpo, se lo state visualizzando.

Se lo sentite, scoprite il calore della consapevolezza che sorge là dove spontaneamente si è fermata la vostra attenzione.

Man mano che andate avanti concentratevi sulle vostre obiezioni:

  • disprezzate il funzionamento fisico?
  • Provate vergogna a essere un corpo?
  • Considerate la defecazione qualcosa di doloroso e sporco?
  • Vi spaventa stringere i pugni?
  • Volete colpire o temete d’essere colpiti?
  • Una sensazione alla gola vi disturba?
  • Avete paura di urlare?

Quando recupererete il potere di sentire quelle parti del vostro corpo che ora non sentite (anche dolorosamente), concentratevi su di esse.

Vi ricollegherete alla saggezza popolare:

  • Torcicollo = testardaggine
  • Testa dritta = altezzosità
  • Mento in fuori = chi mi vuole colpire?
  • Sopraciglia inarcate = arroganza
  • Groppo alla gola = voglia di piangere
  • Fischio nel buio = paura
  • Pelle d’oca = terrore
  • Sopraciglia sporgenti = sono iroso
  • Gola chiusa = cosa non posso ingoiare?
  • Senso di nausea = cosa non riesco a digerire?
  • A un mal di testa o a qualche altro sintomo applicate il metodo dell’esperimento sulla concentrazione. Dategli la vostra attenzione e lasciate che si formi il processo figura-sfondo.

Con pazienza (perché il processo è lungo e lento!), cercate di sentire il dolore nella forma, nelle dimensioni, nella direzione dei muscoli particolari che state contraendo.

Il dolore si sposterà di qua e di là, cambierà intensità, qualità e tipo.

  1. Prestate attenzione a tutti i segni di eccitazione biologica: fremiti, tremori, pruriti, scariche elettriche. Non intervenite su di questi. Aspettatene gli sviluppi.
  2. Espirate profondamente 4 o 5 volte. Quindi respirate più leggermente, espirando senza sforzo.

Potete sentire il flusso dell’aria nella gola, nella bocca, nella testa?

Soffiate l’aria dalla bocca sulla vostra mano.

Tenete il petto dilatato anche senza inspirare?

Contraete lo stomaco durante l’inspirazione?

Potete sentire l’inspirazione fino al fondo dello stomaco e del bacino?

Sentite l’espansione delle costole lateralmente e sul dorso?

Quanto è tesa la vostra gola, le mascelle, il naso? E il diaframma?

Quando siete particolarmente presi da qualcosa, notate la vostra tendenza a trattenere il fiato, invece di respirare più profondamente come richiederebbe la situazione da un punto di vista biologico?

Cosa state trattenendo?

Un urlo? Una fuga? Un colpire? Un vomitare? Un piangere? Un afflosciarvi?

Quando viene retroflessa l’azione muscolare, la postura viene deformata.

Per una postura corretta, la testa, senza costrizioni da parte dei muscoli del collo, deve bilanciarsi liberamente sul torso e questo sul bacino (senza sporgere il petto o tirare dentro l’addome).

  • Il conflitto tra testa e tronco si può esprimere anche come lotta tra mano destra e sinistra.
  • Quando la “testa” è moralistica e giusta, abbiamo il collo rigido, timorosi di perdere il nostro equilibrio (il collo smette d’essere un ‘ponte’ che congiunge testa e tronco e diventa una barriera, un collo di bottiglia che strozza il funzionamento tra parti superiori ed inferiori della personalità).
  • Le spalle, temendo di espandersi per lavorare e combattere, vengono contratte.
  • Per tenere ben sotto controllo la parte inferiore del corpo, una mano si contrappone all’altra e lo stesso vale per le gambe. Quando ci sediamo, il nostro equilibrio è precario, tutto il peso viene poggiato su una sola natica.
  • Concentrandovi sulle differenze tra destra e sinistra potrete riguadagnare gran parte dell’equilibrio sottile necessario per la postura e la locomozione adeguate.

Sdraiatevi sul dorso, sul pavimento, cercando (senza forzare) di aderire a terra schiena e collo.

Portate le ginocchia in su, piegando le gambe e divaricandole; palme dei piedi a terra (notate la rigidità della schiena e la tendenza a rannicchiarsi delle gambe!?)

Permettetevi la ricerca della migliore comodità.

Verificate la simmetria delle vostre parti destre e sinistre: la sensazione di essere tutti storti è veritiera!

Correggete, lentamente, le asimmetrie, “scannerizzandovi” dai piedi alla testa.

  • Braccia sciolte e distese lungo il corpo; notate la tendenza ad unirle!? Cosa può significare? Volete proteggere i vostri genitali? Vi sentite esposti ed indifesi in questa posizione? Cosa vi può attaccare? Vi tenete ben stretti per paura di cadere a pezzi? Il divario tra mano destra e sinistra cosa significa? Volete tenere qualcuno con una mano e/o con l’altra allontanarlo? Di andare da una parte e anche dall’altra? Come correggete la vostra posizione? Vi dimenate? Vi dibattete? Vi sentite in trappola?
  • Altro aspetto importante è il rapporto tra ‘dietro’ e ‘avanti’.

Mentre guardate avanti, siete preoccupati di ciò che avete dietro?

Se siete soggetti ad inciampare e a cadere, concentratevi su tale questione!

Mentre fate questi esercizi, se sentite l’impulso a stendervi, stendere una qualsiasi parte del vostro corpo, fatelo!

Verso chi vi state stendendo? La mamma? L’amante?

E lo stendere può essere un scacciare via?

Se è così, spingete un qualcosa di solido, con forza proporzionale alla vostra intenzione.

Analogamente, supponiamo che sentiate le vostre labbra stringersi e la vostra testa tirarsi indietro. Lasciate la vostra testa muoversi a destra e sinistra e dite: “No”.

Come lo dite? (sommessamente, urlando…)

Accompagnate il vostro dire a qualche azione? (battere un pugno, scalciare…)

Cosa significa tutto questo?

Nell’eseguire questi esercizi, non serve a nulla limitarsi alla messa in scena.

Quando mettiamo in scena un’azione, un movimento, approdiamo al suo senso scoprendo il sentimento che cristallizza e, da questo, approdiamo, intuitivamente, al suo significato e a come questo si inscriva nei nostri rapporti interpersonali.

Esercitazioni N° 14 (a proposito, in particolare, della confluenza)

Così come addentiamo e mastichiamo il cibo, addentiamo e mastichiamo i nostri problemi, le nostre fissazioni, i nostri ‘dover essere’.

Concentrandoci sui gesti del mangiare, possiamo mettere in atto sperimentazioni/esercitazioni che ci permetteranno di scoprire, come nostre resistenze principali, sentimenti (quali l’impazienza e l’ingordigia) inadeguati alla gestione delle dinamiche di selezione-addentamento-masticazione che presiedono ai processi di assimilazione/digestione, sia del cibo, sia di ogni contenuto mentale.

  1. Concentratevi sul vostro pasto senza leggere o pensare. Concentrate la vostra attenzione sul vostro cibo. Fate come gli uomini primitivi che per mangiare si isolavano (non utilizzare il mangiare come un’occasione di socialità varia!)
  2. Consumate un pasto al giorno completamente soli, per imparare a mangiare.
  3. Notate le vostre resistenze alla concentrazione sul cibo e sull’atto del mangiare:  vi distraete, pensate ad altro, desiderate parlare, sognate ad occhi aperti e … perdete il contatto col sapore del cibo? Non vi accorgete di quello che mangiate!?
  4. Addentate il cibo con i denti anteriori, tagliando il boccone che introducete in bocca, o strappate il boccone con la forza delle mascelle?
  5. Usate i molari, masticando il cibo fino a ridurlo in poltiglia?
  6. Sperimentate i sapori o tutto ha lo stesso sapore?
  7. Mangiate in fretta, voracemente, con impazienza ed ingordigia?
  8. Come vanno le cose quando non si tratta di cibo propriamente detto ma di ‘cibo mentale’?
  9. Diventate consapevoli di come mangiate, osservandovi. Il cambiamento avverrà da sé.
  10. Quale e come è la vostra capacità di assimilare un testo? Saltate le parti difficili o le analizzate? Vi piacciono unicamente i pezzi di ‘letteratura soft’, articoli e/o relazioni sommarie, superficiali, facili da inghiottire, senza alcun impegno analitico critico? O vi sforzate, con poco piacere, di leggere pezzi e testi ‘pesanti’ ed impegnativi
  11. Quando guardate un film, cadete in una sorta di ‘trance’ in cui vi bevete le scene?

Potete considerare tutto ciò come un esempio di confluenza? (vedi capitolo sulla Gestalt, a proposito delle interruzioni di contatto)

L‘alcolismo può essere visto come esempio di confluenza.

L’alcolismo è strettamente connesso al sottosviluppo orale (confluenza).

L’alcolizzato è un ‘lattante adulto’, incapace di addentare e masticare il cibo come i problemi del vivere. Beve per bere il suo ambiente, per ottenere una confluenza facile e totale, evitando l’agitazione che caratterizza ogni presa di contatto e che costituisce per lui uno sforzo insostenibile.

L’alcolizzato desidera soluzioni sotto forma liquida, facili da tracannare; rapporti sociali confluenti, immediati, senza contatti preparatori (la persona conosciuta occasionalmente diventa l’amico cui aprire il cuore!)

L’alcolizzato possiede una coscienza fortemente aggressiva nei propri confronti, che fa tacere annegandola nell’alcol. Finché non rivolgerà tale aggressività nei confronti dei propri problemi (il cibo da procacciarsi, cucinare e digerire!), facilmente si ritroverà a sfogarla in scontri occasionali e privi di senso.

L’alcolizzato pretende la soddisfazione immediata del proprio bisogno, non sa stare nello sviluppo del “ciclo del contatto”,  nel “processo di soddisfazione dei bisogni”, nel progredire dei suoi preliminari.

Un meccanismo simile si evidenzia nella promiscuità sessuale.

A porsi in risalto sono ancora una volta l’impazienza e l’ingordigia.

Esercitazioni N° 15 (di nuovo a proposito dell’introiezione e della retroflessione)

L’introiezione è caratterizzata da una costellazione particolare di emozioni e di tendenze comportamentali:

  • L’impazienza e l’avidità
  • Il disgusto e la sua negazione, la perdita del gusto e dell’appetito
  • La fissazione (disperazione dell’aggrapparsi a ciò che non dà più nutrimento)

Rivolgersi alle dinamiche di nutrizione può aiutare a risolvere gli automatismi di stampo introiettivo.

Per la soluzione è implicita la riattivazione del disgusto, per quanto spiacevole e ostacolata da resistenze.

  1. A tutti i pasti prendete un boccone e masticatelo fino a ridurlo in poltiglia liquida, quindi bevetelo. Arriverete ad ottenere sempre più sapore e nutrimento da quanto mangiate in corrispondenza al sentirvi sempre più agenti attivi della vostra crescita. La cosa più importante nell’abituarsi a masticare è lo sviluppare l’attitudine a distruggere e assimilare del materiale reale (evitando tutte le pratiche ossessive).
  2. Come complemento funzionale del compito di masticare completamente un singolo boccone di cibo, allenatevi nello stesso modo nel campo intellettuale.
  3. Prendete una singola frase di un libro, una frase di difficile comprensione. Analizzatela smontandola completamente, parola per parola. Rivolgetevi quindi al suo senso completo. Come lo trovate? Confuso e vago o chiaro e comprensibile? Vero o falso? Per voi condivisibile? Siete voi che non comprendete o la frase è incomprensibile? Decidete voi!
  4. Un altro esperimento di identità funzionale tra il processo del mangiare e la ‘digestione’ di una situazione interpersonale: quando siete impazienti, arrabbiati, scombussolati, risentiti e, pertanto, propensi ad inghiottire, applicate la vostra aggressività ad un attacco deliberato nei confronti di un cibo vero e proprio; prendete una mela, un pezzo di pane duro e sfogate su questo la vostra vendetta; secondando il vostro umore, masticate con tutta l’impazienza, la fretta, la violenza e la crudeltà che avete in corpo; ma mordete e masticate; non inghiottite bocconi interi!

L’aggressività trova una sua gestione nevrotica nella retroflessione e nell’introiezione (atteggiamento giudicante e moralistico).

Allenandoci a masticare consapevolmente, ad utilizzare l’aggressività in una sua funzione specifica,, impareremo a riconoscere l’aggressività come una nostra funzione naturale, smettendola di rivolgerla contro noi stessi e contro gli altri.

Impareremo a respingere quanto non possiamo digerire (fisicamente e psichicamente), a mordere e a masticare quanto possiamo digerire, ad eliminare quanto improvvidamente abbiamo introiettato (magari ‘tirandolo’ fuori per masticarlo debitamente, ingerendo quanto e solo quello che ci fa bene ingerire, ed espellendo quanto non ci fa bene e non riconosciamo come nostro).

L’organismo reagisce a certe situazioni come se le stesse accogliendo nel canale digerente!

Il nostro linguaggio è pieno di espressioni che richiamano metaforicamente tale cosa:

“ti trovo disgustoso”

“l’idea di farlo mi rivolta”

“questa vista è nauseante”

“ecc…”

Il disgusto è il desiderio di portare alla superficie, di vomitare, di rifiutare il materiale spiacevole e inadeguato per l’organismo.

Per eliminare gli introietti dobbiamo riattivare il disgusto.

Per sbarazzarci dei nostri introietti, dobbiamo proseguire negli esercizi di masticazione, intensificando l’attenzione per il gusto e per tutte quelle ‘zone’ di insensibilità ai sapori:

masticate, prestando attenzione ai cambiamenti di sapore, alle differenze di consistenza, di temperatura; rianimerete così il disgusto fino a provare l’impulso di vomitare; vi sembrerà terribile solo in forza delle vostre resistenze, ma se lo farete scoprirete la gioia d’esservi liberati da ciò che vi dava fastidio.

Fate altrettanto con ogni situazione interpersonale.

Ecco una tecnica semplice per cominciare a rimettere in movimento la mascella fissata:

  • Se vi accorgete di tenere spesso i denti stretti, di essere in uno stato d’animo cupo invece di lavorare con facilità e interesse, fate in modo che i vostri denti superiori e quelli inferiori si tocchino appena. Non dovete tenerli né stretti né del tutto separati; concentratevi e aspettate gli sviluppi. I vostri denti potrebbero cominciare a sbattere come se aveste freddo. Lasciate che questo sintomo si diffonda in tutto il corpo.
  • Aumentate l’ampiezza dell’apertura della mascella.
  • Congiungete i vostri denti in tutte le posizioni possibili, premendo le dita contro l’attaccamento della mascella, sotto le orecchie.
  • Concentratevi dove sentite dolore, cercando di sperimentare un rilassamento completo, laddove sentite delle rigidità.
  • In alternativa, stringete i denti in ogni posizione, fino a percepire la tensione, per poi rilassarla.
  • Spalancate la bocca e mordete a fondo le vostre parole, sparandole fuori come mitragliandole.

L’atto di mordere caratterizzato dalla tendenza ad aggrapparsi non è limitato solo alle mascelle, ma si estende alla gola e al petto, impedendo la respirazione e aggravando l’ansia/angoscia, si estende anche agli occhi, determinando la fissità dello sguardo e ostacolandone la penetrazione.

Se l’ansia/angoscia si associa al parlare, ricordate che il parlare è un’espirazione organizzata.

L’inspirazione prende ossigeno per il metabolismo; l’espirazione produce la voce (è molto difficile parlare inspirando). All’agitazione/ansia corrisponde un parlare veloce (impazienza ed avidità si manifestano nell’emissione, non nell’immissione), ma non inspiriamo a sufficienza e respiriamo con difficoltà.

Per correggere questa situazione e percepire il rapporto che passa tra la nostra esistenza non verbale e la capacità di parlare, esercizio del parlare subvocale: coordinare respiro e pensiero (vedi lavoro sul silenzio interiore, Esercitazione N° 10 e 11).

Nella vostra fantasia, parlate in maniera silenziosa e subvocale, come se foste di fronte ad un uditorio, anche solo di una persona.

Concentratevi sul vostro parlare e sul vostro respiro.

Tacete durante l’inspirazione e pensate/parlate durante l’espirazione.

Accorgetevi di quando e quanto trattenete il respiro.

Vi accorgete che il vostro pensare/parlare è unilaterale?

Non fate altro che predicare, commentare, giudicare, persuadere, chiedere, ecc.

Sforzatevi di trovare un ritmo, nel parlare e nell’ascoltare, nel dare e nel ricevere, nell’espirare e nell’inspirare (esercitazione basilare per la cura delle balbuzie).

Esercitazioni N° 16 (a proposito, in particolare, della proiezione)

Una delle paure più tipicamente gestita, nevroticamente, con la proiezione, è quella di essere respinti: il nevrotico respinge gli altri, non considerandoli alla propria altezza.

  1. Ripensate alle persone dalle quali avete pensato d’essere stati respinti (madri, padri, fratelli, chi altri?). Serbate rancore per questo? In cosa e come non li reputate all’altezza delle vostre esigenze?
  2. Pensate a qualcuno per cui nutrite/nutrivate sentimenti forti di antipatia e/o di simpatia. Parlategli a voce alta. Ditegli cosa vi piace e cosa non vi piace di lui; cosa siete disposti a tollerare e cosa no.
  3. Ripetete più volte l’esperimento, passando in carrellata più persone.

Come vi sentite durante l’esercitazione? Com’è la vostra voce? In che modo ciò che dite dell’altro vi riguarda? Quello che pensate dell’altro può essere condiviso da altri e in che modo?

Per superare una proiezione è necessario prendere atto della differenza tra fantasia e realtà!

Colui che proietta trova sempre delle ‘prove’ a sostegno delle proprie proiezioni.

Tra le proiezioni di maggior ‘successo’ troviamo la gelosia e ogni forma di pregiudizio nei confronti degli “altri” (singoli individui e/o gruppi sociali di varia natura).

La questione da porsi è sempre quella di quanto, il pregiudizio che attiviamo nei confronti degli altri, non riguardi contenuti che ci riguardano!

La proiezione, come modalità nevrotica di comportamento sociale, si associa ad uno stato di “sofferenza – aggressività passiva” tipico della nostra epoca, profondamente radicato nel nostro linguaggio, nella nostra visione del mondo, nelle nostre istituzioni, insomma: caratteristico dell’uomo dissociato, moderno:

  • Non siamo noi che ci arrabbiamo, siamo posseduti da forze che non possiamo controllare (l’ira funesta).
  • Non siamo noi a pensare, sono i pensieri che ci vengono in mente.
  • Non siamo noi ad avere dei problemi, sono i problemi che ci perseguitano.
  • Non siamo noi ad avere delle preoccupazioni, sono le preoccupazioni che …
  • Non siamo noi a sognare e a desiderare.

Esercitazioni N° 17

Con il concetto dell’ ‘Es’, la psicanalisi espose una grande verità:  la personalità non si esaurisce nella sfera dell’ ‘Io’, altre istanze la muovono.

Ora possiamo/vogliamo fare un passo avanti: liberare ed estendere le abitudini dell’ ‘Io’, trasformare la sua struttura fissa in un sistema di processi mobili, che ci consenta di vivere come nostre le istanze dell’ ‘Es’, di sfruttarle creativamente (come fanno i bambini nei loro giochi).

Un buon modo è quello della critica del linguaggio.

Prestiamo attenzione alla formulazione delle nostre frasi e ri-coniughiamole:

  • in prima persona tutte quelle composte in terza persona o in modo impersonale (“si dice che…” vs “io dico che…”),
  • nella forma attiva tutte quelle frasi formulate in forma passiva (“mi viene in mente” vs “sto pensando”),
  • all’insegna del volere tutto ciò che presentiamo come dovere,
  • ponendoci come soggetto laddove ci presentiamo come oggetto (“mi hanno dato un sacco di schiaffi” vs “ho preso un sacco di schiaffi”).
  • Esaminiamo dettagliatamente il contenuto delle espressioni con cui parliamo di noi stessi con coniugazioni alla terza persona. Immaginiamone la concretizzazione (es: “Un pensiero mi ha colpito”; dove? Come? Con cosa?) e/o le valenze simbolico/semantiche (chi/cosa avrei voluto colpire?), ad esempio quando dico “Mi duole il cuore”, sto forse desiderando qualcosa che non riesco ad ottenere? E se dico: “ho mal di testa”, forse ho fatto un pieno di pensieri?
  • Ascoltate le espressioni degli altri, traducetele nello stesso modo, vi aiuterà a intuirne le modalità relazionali.

Col tempo impareremo a comprendere che, similmente a quanto accade nell’arte, nonostante il contenuto dei discorsi abbia un’importanza fondamentale, sono la struttura, la sintassi e lo stile a fare la differenza e a rivelarne valori e caratteristiche.

Una sintassi adeguata sviluppa la consapevolezza!!!

  • Traducete “la mia coscienza mi impone di…” in “Io pretendo da me stesso…” (trasformare la proiezione in retroflessione).
  • Rovesciate “mister X pretende da me che…” in “Io pretendo da ‘mister X’ che…”

Per liberarci dalle introiezioni, dobbiamo differenziare ciò che arriva da ‘fuori’ da ciò che arriva da ‘dentro’.

Per “assimilare” una proiezione, dobbiamo risolvere la retroflessione e l’introiezione che la sostengono!

Esempio della donna che proietta, sugli uomini che incontra, il proprio desiderio sessuale:

  1. proiezione: gli uomini sono dei porci perché mi vogliono scopare;
  2. retroflessione: ingessatura corporale;
  3. introiezione: fare sesso è peccato.

Ogni qualvolta “vedete” nell’altro qualcosa che non vi piace, immaginate di averla voi stessi; ogni qualvolta gli “vedete” fare qualcosa che non vi piace, immaginatevi d’essere voi stessi a farla; ripetetevi: “quell’altro sono io” e state in ascolto di come vi sentite in questo capovolgimento.

Qualcosa succederà.

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